Giudizio di rinvio
09 Agosto 2017
Inquadramento
Il giudizio di rinvio è regolato dagli artt. 392-394 c.p.c., nonché dall'art. 384, comma 2, laddove stabilisce che la Corte di cassazione, quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza, rinviando la causa ad altro giudice, che deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte. In generale, il giudizio di rinvio costituisce una prosecuzione del processo di cassazione e non una riapertura della fase conclusa con la sentenza cassata, come si desume ormai inconfutabilmente della facoltà che la SC ha, ai sensi dell'art. 384, comma 2, ultimo inciso, c.p.c. di definire direttamente il merito della controversia (Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 2009, 582; Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2009, 473 ss.): si tratta, in altri termini, del giudizio rescissorio non effettuato dalla SC laddove si sia limitata alla sola pronuncia rescindente e, cioè, per l'appunto, alla cassazione con rinvio della sentenza impugnata (Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Il processo di primo grado e le impugnazioni, Padova, 2009, 541). Il giudizio di rinvio è volto dunque alla pronuncia di una sentenza che, senza sostituirsi ad alcuna pronuncia precedente, viene a statuire per la prima volta sulle domande proposte dalle parti: ed infatti la sentenza di primo grado è stata ormai cancellata dalla sentenza d'appello in applicazione del suo effetto sostitutivo, mentre la sentenza d'appello è stata travolta a propria volta dalla cassazione. Ed infatti, fermo l'eventuale giudicato interno formatosi con riguardo alle statuizioni adottate in primo grado e non impugnate ovvero confermate in appello e in cassazione (Cass. 7 febbraio 2012, n. 1680), la sentenza di primo grado non subisce, in conseguenza della cassazione con rinvio, un effetto di reviviscenza della sentenza di primo grado (Cass. 12 marzo 2013, n. 6113). In tal senso la SC ha affermato che il giudizio di rinvio conseguente alla cassazione della pronuncia di secondo grado per motivi di merito non costituisce la prosecuzione della pregressa fase di merito e non è destinato a confermare o riformare la sentenza di primo grado, ma integra una nuova ed autonoma fase che, pur soggetta, per ragioni di rito, alla disciplina riguardante il corrispondente procedimento di primo o secondo grado, ha natura rescissoria (nei limiti posti dalla pronuncia rescindente), ed è funzionale alla emanazione di una sentenza che, senza sostituirsi ad alcuna precedente pronuncia, riformandola o modificandola, statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti (come si desume dal disposto dell'art. 393 c.p.c., a mente del quale all'ipotesi di mancata tempestiva riassunzione del giudizio, non consegue il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, bensì la sua inefficacia (Cass. 28 gennaio 2005, n. 1824; Cass. 23 settembre 2002, n.13833; Cass. 18 giugno 1994, n.5901). In definitiva la decisione pronunciata in sede di rinvio deve dar luogo ad una pronuncia diretta sul merito delle pretese sostanziali ancora in discussione tra le parti. Bisogna subito sottolineare, tuttavia, che la ricostruzione appena effettuata si attaglia al rinvio c.d. proprio o prosecutorio, e non al rinvio c.d. improprio o restitutorio, di cui subito si dirà. Rinvio prosecutorio e rinvio restitutorio
Si ha rinvio prosecutorio (o «proprio») a seguito di cassazione di una sentenza per i motivi di cui ai nn. 3 o 5 dell'art. 360 c.p.c. (violazione di legge e vizio di motivazione): in tal caso trovano applicazione gli artt. 392-394c.p.c.. Si ha invece giudizio di rinvio restitutorio (o «improprio») in caso di cassazione per i motivi di cui al n. 4 dell'art. 360 (errores in procedendo), ed in tal caso il giudizio di merito deve essere ripetuto. In questo caso, in linea generale, non trova applicazione la disciplina dettata dagli artt. 392-394. I procedimenti che nascono dalla cassazione per motivi di giurisdizione o competenza (nn. 1 e 2 dell'art. 360) non sono qualificabili come giudizi di rinvio. La distinzione tra rinvio «prosecutorio» e rinvio «restitutorio», affermata dalla dottrina sulla base dell'art. 383, comma 3, c.p.c. è stata in particolare recepita dalle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 27 febbraio 2008, n. 5087), allorché hanno contrapposto la previsione dell'art. 383 c.p.c., comma 1, c.p.c., la quale dà luogo a una statuizione di competenza funzionale e, nel contempo, sull'alterità del giudice rispetto ai magistrati che pronunziarono la sentenza cassata, all'ipotesi di cui al comma 3 della stessa norma, in forza della quale il giudice di primo grado non deriva i suoi poteri da una designazione discrezionale della Corte di cassazione, bensì dalle norme ordinarie sulla competenza (in tal senso v. motivazione di Cass., Sez.Un., 9 giugno 2016, n. 11844). Quando sia in presenza di un error in procedendo — se è consentita l'espressione — valgono le regole del gioco dell'oca, e cioè occorre tornare indietro di tante caselle quante sono necessarie per rimediare all'errore commesso dal giudice di merito, sicché il giudice di rinvio viene in tal caso a trovarsi nella medesima posizione in cui ha già operato il giudice a quo, sicché la sua decisione ha carattere sostitutivo di quella di primo grado, a differenza di quanto accade in caso di rinvio prosecutorio. Così, ad esempio, qualora il giudice di appello abbia illegittimamente rimesso al giudice di primo grado la causa per omessa integrazione del contraddittorio e la Corte di cassazione rilevi detto errore commesso dal giudice di secondo grado, la causa va cassata con rinvio al medesimo giudice di appello (rinvio appunto di tipo restitutorio), che resta investito del potere di riesaminare il merito della causa, nell'ambito di un giudizio nel quale le parti, salvi i limiti dell'impugnazione a suo tempo proposta, hanno la facoltà di svolgere tutte le difese e le argomentazioni che risultino compatibili con il rito di secondo grado, o la cui proposizione sia ammissibile in sede di gravame (Cass. 8 novembre 2013, n.25250). Si ha rinvio restitutorio, in sintesi, in ogni caso di annullamento con rinvio della sentenza che abbia dichiarato inammissibile o improcedibile l'appello, ovvero che abbia dichiarato estinto il relativo giudizio, e comunque in ogni caso di rinvio dovuto ad errores in procedendo che abbiano viziato in rito la sentenza d'appello: perciò, in buona sostanza, allo scopo di preservare il doppio grado di merito nel caso in cui il giudizio d'appello sia mancato o si sia svolto invalidamente. In ipotesi di rinvio restitutorio non trovano applicazione le disposizioni del giudizio di rinvio, ed il giudice del rinvio è vincolato soltanto a non incorrere nel medesimo error in procedendo che ha provocato la precedente pronuncia di cassazione. La riassunzione a seguito della cassazione si effettua, ad iniziativa di una qualunque delle parti nel processo, con citazione, entro il termine di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione (art. 392, comma 1, c.p.c.), sotto pena di estinzione (art. 393 c.p.c.). Ovviamente, va impiegato il ricorso ove si verta in materia di lavoro, con la conseguenza che la riassunzione effettuata con citazione è tardiva se depositata dopo lo spirare del termine previsto (Cass. 12 aprile 2012, n.5777). Non occorre una nuova procura ad litem, potendo il difensore avvalersi di quella rilasciata nelle precedenti fasi di merito (Cass. 6 ottobre 2004, n. 19937). Poiché la riassunzione può essere effettuata da qualunque delle parti del processo, una volta avvenuta la riassunzione ad opera di una di esse, le altre ritualmente prendono le conclusioni di merito di cui all'art. 394, comma 3, anche mediante comparsa e pur dopo la scadenza per esse del termine per la riassunzione stessa (Cass. 19 gennaio 2000, n. 538). L'atto di riassunzione va notificato alla parte personalmente a norma degli artt. 137 e ss. c.p.c. (art. 392, comma 2, c.p.c.), dal momento che la precedente domiciliazione viene considerata inefficace. La notificazione della citazione o del ricorso in riassunzione effettuata al difensore o al domiciliatario è nulla e non inesistente, con conseguente obbligo per il giudice disporre la rinnovazione ai sensi dell'art. 291 c.p.c. (Cass. 3 dicembre 2013, n.27094) ovvero nel rito del lavoro ai sensi dell'art. 421 c.p.c. (Cass. 25 agosto 2004, n.16803), rinnovazione che, se effettuata nel termine assegnato, produce effetti ex tunc e dunque conservativi della riassunzione (Cass. 27 marzo 2009, n. 7536). Sulla configurazione del menzionato vizio in termini di nullità e non di inesistenza è sufficiente richiamare la distinzione tra le due ipotesi accolta di recente in una nota sentenza delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 20 luglio 2016, n. 14916). Quanto al contenuto dell'atto di riassunzione, bisogna rammentare che essonon ha una funzione introduttiva del giudizio, ma costituisce strumento di riattivazione del contraddittorio davanti al giudice designato e determina l'automatico mantenimento delle domande già proposte. Ne discende che:
Con riguardo alle conclusioni, l'atto di riassunzione dinanzi al giudice del rinvio deve soltanto esplicitare la volontà di ottenere la pronuncia di merito favorevole, atteso che l'accertamento fattuale derivante dalla sentenza di cassazione riguarda i poteri del giudice di rinvio, non la domanda giudiziale, che si forma e si definisce esclusivamente nel giudizio di primo grado, e che in sede di rinvio non sono ammissibili domande nuove (già precluse in appello), mentre sono consentite - e dunque non imposte quoad validitatem relativamente all'atto di riassunzione - le sole conclusioni diverse eventualmente necessitate dalla sentenza di cassazione (Cass. 14 febbraio 2017, n. 3883). In tale quadro, il giudice innanzi al quale sia stato riassunto il processo non incorre nel vizio di ultrapetizione quando abbia pronunciato su tutta la domanda proposta nel giudizio in cui fu emessa la sentenza annullata, e non sulle sole diverse conclusioni formulate con l'atto di riassunzione, atteso che, a seguito della riassunzione, il processo originario prosegue (Cass. 30 ottobre 2014, n. 23073). La riassunzione deve essere effettuata nei confronti di tutte le parti della fase di cassazione, che la giurisprudenza qualifica come litisconsorti necessari (Cass. 8 settembre 2014, n. 18853; Cass. 12 ottobre 2012, n.17482), neppure potendo il giudice del rinvio rivalutare la questione dell'integrità del contraddittorio nelle precedenti fasi di merito, al di fuori del dictum dalla Cassazione (Cass. 21 febbraio 2006, n. 3688; Cass. 22 gennaio 2000, n.699). Non è d'altro canto ammissibile l'intervento del terzo al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 404 c.p.c. (Cass. 16 aprile 2015, n. 7710). A seguito della riassunzione è necessaria una nuova costituzione delle parti, con l'osservanza delle norme relative a tale atto, in assenza della quale il giudice provvederà alla dichiarazione di contumacia, anche se la parte si era costituita nelle precedenti fasi del giudizio (Cass. 6 dicembre 2000, n. 15489). Disciplina del giudizio di rinvio
Il giudizio di rinvio, secondo la SC, va considerato pendente fin dal momento della pubblicazione della pronuncia di cassazione (Cass. 13 luglio 1998, n. 6828; Cass. 27 novembre 1990, n.11430): entro il già menzionato termine di tre mesi da tale data va effettuata la riassunzione ai sensi dell'art. 392, comma 1, c.p.c., mediante l'atto di cui si è appena detto. Secondo l'art. 394 c.p.c.. comma 1, in sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al giudice al quale la Corte ha rinviato la causa. La disposizione opera però nei limiti della compatibilità con le norme del giudizio di rinvio, attesa la sua particolare natura di giudizio «chiuso», nel quale le parti non possono dedurre nuove domande o eccezioni nuove, né prospettare difese non fatte valere nella precedente fase di merito (Cass. 12 ottobre 1977, n. 4351; Cass. 16 aprile 1984, n. 2456). Non trova ad esempio applicazione dinanzi al giudice del rinvio l'art. 348 c.p.c. sull'improcedibilità dell'appello. Ed infatti l'improcedibilità dell'appello, comportando il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, non può essere dichiarata nel giudizio di rinvio, giacché la sentenza di primo grado è ormai caducata, senza possibilità di reviviscenza (Cass. 1° dicembre 1993, n. 11881; Cass. 22 agosto 2001, n.11180). Parimenti non si applica l'art. 436 c.p.c. sull'appello incidentale nel rito del lavoro (Cass. 9 ottobre 1997, n. 9808; Cass. 20 giugno 2007, n.14306). Secondo l'art. 394 c.p.c.. comma 2, nel giudizio di rinvio le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza cassata. Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che rimangono ferme le domande, le eccezioni e le difese già svolte nel giudizio, le preclusioni già verificatesi a carico delle parti e gli oneri probatori a carico delle medesime. L'onere, previsto dall'art. 394, comma 1, c.p.c., di produrre nel giudizio di rinvio copia autentica della sentenza di cassazione grava su entrambe le parti (Cass. 22 agosto 2001, n. 11180). Il giudizi di rinvio come giudizio chiuso
Rilievo centrale, nella definizione dell'assetto del giudizio di rinvio, riveste il comma 3 dell'art. 394 c.p.c., dal quale si trae la ribadita affermazione secondo cui esso è un giudizio «chiuso», sicché le parti, al di là del contemplato deferimento del giuramento decisorio, non possono formulare conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata, a meno che la necessità delle nuove conclusioni non sorga dalla sentenza di cassazione (Cass. 23 febbraio 2006, n. 4018). Le ragioni della previsione sono agevolmente intuibili: se le parti potessero immutare il quadro delle attività assertive e probatorie, ne rimarrebbe tendenzialmente scavalcato lo stesso intervento della Corte di cassazione, giacché esso rischierebbe di non essere più congruente rispetto alla sostanza della lite. E si comprende altrettanto agevolmente, per converso, la deroga simmetricamente prevista dall'art. 394, comma 3, c.p.c., che consente nuove conclusioni necessitate dalla stessa sentenza di cassazione. Per quanto attiene agli aspetti istruttori, va da sé, a quest'ultimo riguardo, che la possibilità di formulare nuove deduzioni probatorie a seguito della reimpostazione giuridica della controversia operata nella fase di legittimità, non consente al giudice di rinvio di ricusare l'ammissione dei nuovi mezzi sul presupposto della tardività della loro formulazione ad opera delle parti (Cass. 1° marzo 2012, n. 3186). Ancora con riguardo alle deduzioni istruttorie, lo sbarramento posto dalla citata norma sembrerebbe rendere inapplicabile in sede di rinvio, nell'ottica della verifica di compatibilità di cui si è già detto, i divieti posti dall'art. 345 c.p.c. e, per il rito del lavoro, dall'art. 437 c.p.c., giacché la preclusione dei nova discende già, e direttamente, dell'art. 394, comma 3, c.p.c.. In proposito la SC ha tuttavia affermato oltre mezzo secolo fa che:
La regola si giustifica per il fatto che, se non si ammettesse l'ingresso di detti documenti in sede di rinvio, rimarrebbe successivamente aperta la strada dell'impugnazione per revocazione ai sensi dell'art. 395, n. 3 c.p.c.. In tale prospettiva si è anche di recente ribadito che il carattere «chiuso» del giudizio di rinvio non osta a che in esso le parti possano depositare documenti formatisi successivamente al deposito del ricorso in riassunzione ex art. 392 c.p.c. o che non sia stato possibile produrre prima per causa di forza maggiore (Cass. 5 giugno 2014, n. 12633). Nel giudizio di rinvio è dunque preclusa l'acquisizione di nuove prove, e segnatamente la produzione di nuovi documenti, salvo che la loro produzione non sia giustificata da fatti sopravvenuti riguardanti la controversia in decisione, da esigenze istruttorie derivanti dalla sentenza di annullamento della Corte di cassazione o dall'impossibilità di produrli in precedenza per causa di forza maggiore (Cass. 30 settembre 2015, n.19424). La configurazione del giudizio di rinvio quale giudizio ad istruzione sostanzialmente chiusa, in cui è preclusa la formulazione di nuove conclusioni e quindi la proposizione di nuove domande o eccezioni e la richiesta di nuove prove, salvo che la necessità di nuove conclusioni sorga dalla stessa sentenza di cassazione, non osta all'esercizio, in sede di rinvio, dei poteri istruttori esercitabili d'ufficio dal giudice del lavoro anche in appello (art. 437 c.p.c.), limitatamente ai fatti già allegati dalle parti, o comunque acquisiti al processo ritualmente, nella fase processuale antecedente al giudizio di cassazione, in quanto i limiti all'ammissione delle prove concernono l'attività delle parti e non si estendono ai poteri del giudice, ed in particolare a quelli esercitabili di ufficio (Cass. 17 gennaio 2014, n.900; Cass. 13 febbraio 2006, n.3047).
I poteri del giudice del rinvio
Ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c. il giudice di rinvio è tenuto ad «uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte». In sede di rinvio occorre dunque attenersi tanto alla regula iuris, quanto al complesso delle statuizioni adottate dalla Corte. In tal senso è stato ad esempio affermato che, in ipotesi di annullamento con rinvio per violazione di norme di diritto, la pronuncia della Corte di cassazione vincola al principio affermato ed ai relativi presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla regola giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione, attenendosi agli accertamenti già compresi nell'ambito di tale enunciazione, senza poter estendere la propria indagine a questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità, costituiscono il presupposto stesso della pronuncia, formando oggetto di giudicato implicito interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza, in contrasto col principio di intangibilità» (Cass. 16 ottobre 2015, n. 20981; Cass. 23 luglio 2010, n. 17353). Occorre tuttavia aggiungere che la cognizione del giudice di rinvio è altresì limitata alle questioni oggetto dei motivi di impugnazione formulati nel giudizio d'appello conclusosi con la sentenza cassata e che continuano a delimitare, da un lato, l'effetto devolutivo dello stesso gravame e, dall'altro lato, la formazione del giudicato interno (Cass. 14 giugno 2006, n. 13719; Cass. 21 febbraio 2007, n. 4096; Cass. 15 dicembre 2008, n. 29320). Le situazioni che possono verificarsi in caso di rinvio prosecutorio sono in generale tre, a seconda che l'annullamento sia avvenuto: i) per violazione o falsa applicazione di legge; ii) per omesso esame d'un fatto decisivo e discusso dalle parti; iii) per l'una e l'altra ragione. Al riguardo la SC ha chiarito che
L'obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Cassazione è insensibile agli eventuali mutamenti sopravvenuti nella giurisprudenza della SC (Cass. 17 marzo 2014, n. 6086; Cass. 24 maggio 2007, n. 12095). Si discute se il giudice di rinvio possa sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma oggetto del principio di diritto enunciato con la sentenza di annullamento.
È stata giudicata ammissibile per il giudice di rinvio la proposizione dell'istanza di rimessione di questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia CE, ai sensi dell'art. 267 del Trattato dell'Unione Europea (Cass. 25 febbraio 2011, n. 4690). La SC ha escluso la rilevabilità in sede di rinvio del giudicato, sia interno che esterno, sempre che l'uno o l'altro siano incompatibili con la pronuncia di cassazione (Cass. 30 luglio 2015, n. 16171; Cass. 15 giugno 2006, n.13787), sempre che non si tratti di giudicato sopravvenuto ad essa (Cass. 22 marzo 2013, n. 7301; Cass. 24 febbraio 2004, n.3621). Va aggiunto che le questioni concernenti motivi di ricorso per cassazione dichiarati assorbiti debbono ritenersi, per definizione, non decise e possono essere, quindi, riproposte del tutto impregiudicate all'esame del giudice di rinvio (Cass. 12 settembre 2011, n. 18677; Cass. 11 dicembre 1990, n. 11767). D'altro canto nel giudizio di cassazione non trova applicazione il disposto dell'art. 346 c.p.c., relativo alla rinuncia alle domande ed eccezioni non accolte in primo grado; pertanto, sulle questioni dichiarate assorbite dal giudice di merito, e non riproposte in sede di legittimità all'esito di tale declaratoria, non si forma il giudicato implicito, ben potendo le suddette questioni, in caso di accoglimento del ricorso, essere riproposte e decise nell'eventuale giudizio di rinvio» (Cass. 24 gennaio 2011, n. 1566; Cass. 2 dicembre 2005, n.26264). Quanto allo ius superveniens, l'efficacia vincolante della sentenza di cassazione con rinvio presuppone il permanere della disciplina normativa in base alla quale è stato enunciato il principio di diritto, e pertanto viene meno allorché quella disciplina sia stata successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di ius superveniens (Cass. 4 febbraio 2015, n. 1995; Cass. 27 ottobre 2006, n.23169). Ciò vale anche per la sentenza che dichiari l'illegittimità costituzionale della norma posta a base della decisione di cassazione con rinvio (Cass. 19 dicembre 2016, n. 26193). L'art. 393 c.p.c. disciplina l'estinzione del processo in fase di rinvio per effetto della mancata riassunzione nei termini ovvero di una causa sopravvenuta di estinzione del giudizio di rinvio, nel qual caso l'intero processo si estingue. Secondo la SC la mancata riassunzione del giudizio di rinvio determina, ai sensi dell'art. 393 c.p.c., l'estinzione dell'intero processo, con conseguente caducazione di tutte le attività espletate, salva la sola efficacia del principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione, senza che assuma rilievo che l'eventuale sentenza d'appello, cassata, si sia limitata a definire in rito l'impugnazione della decisione di primo grado ovvero abbia rimesso la causa al primo giudice e, dunque, manchi un effetto sostitutivo rispetto a quest'ultima pronuncia, rispondendo tale disciplina ad una valutazione negativa del legislatore in ordine al disinteresse delle parti alla prosecuzione del procedimento» (Cass. 18 marzo 2014, n. 6188). In tema di effetti del giudizio di rinvio sul giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, qualora alla pronunzia sul decreto sia seguita l'opposizione con il suo accoglimento (totale o parziale), e successivamente la sentenza di merito sia stata a sua volta cassata con rinvio, nel caso in cui il processo non sia stato riassunto nel termine prescritto non trova applicazione il disposto dell'art. 653 c.p.c., secondo cui a seguito dell'estinzione del processo di opposizione il decreto che non ne sia munito acquista efficacia esecutiva, ma il disposto dell'art. 393 c.p.c., alla stregua del quale alla mancata riassunzione consegue l'estinzione dell'intero procedimento e, quindi, anche l'inefficacia del decreto ingiuntivo opposto. Tuttavia, nel diverso caso in cui l'estinzione del giudizio di rinvio sia successiva ad una pronuncia di cassazione di una decisione di rigetto, in primo grado o in appello, dell'opposizione proposta avverso un decreto ingiuntivo, a tale estinzione consegue il passaggio in giudicato del decreto opposto, secondo quanto prevede il citato art. 653, comma 1, c.p.c., che, limitatamente a questa ipotesi, prevale sul menzionato art. 393» (Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2010, n. 4071; Cass. 6 aprile 2011, n.7871). La sentenza emessa all'esito di tale giudizio è soggetta alle medesime impugnazioni ordinarie esperibili contro le sentenze emesse in quel grado. Sicché, se giudice di rinvio è un giudice d'appello, è esperibile solo il ricorso per cassazione e la revocazione ai sensi dell'art. 395, nn. 4 e 5 c.p.c.; con l'avvertenza, quanto al n. 5 dell'art. 395 c.p.c., che deve trattarsi di un giudicato intervenuto dopo la sentenza di cassazione. Riferimenti
|