Giudizio di equità
13 Febbraio 2017
Inquadramento
I riferimenti normativi del giudizio di equità li troviamo negli artt. 113, 114 e 339 ultimo comma c.p.c. Queste tre disposizioni si integrano a vicenda. Il primo comma dell'art. 113 contrappone la pronuncia secondo diritto a quella di equità. Se il giudizio di diritto consiste nell'applicazione al caso di specie della norma che lo disciplina in via generale ed astratta, il giudizio di equità dovrebbe esserne slegato. La norma non chiarisce fino a che punto si spinga l'autonomia del giudice che decide secondo equità. Questi limiti, però, possono essere desunti delle altre disposizioni. Preliminarmente dobbiamo distinguere tra l'equità integrativa e l'equità sostitutiva. La prima è impiegata nei rapporti contrattuali ed extracontrattuali per completare la disciplina normativa e generalmente per individuare l'elemento patrimoniale (V. ad esempio: artt. 1226, 1371, 1374, 1384, 1450, 1467, 1526, 1660, 1733, 1736, 1755, 2045, 2047, 2056, 2110, 2263 c.c., nonché l'art. 432 c.p.c.). La seconda viene impiegata per la decisione dell'intera controversia, in sostituzione della norma di diritto. Le disposizioni del codice di procedura civile si riferiscono a questo secondo tipo di equità. Quando la legge attribuisce al giudice il potere di decidere secondo equità, egli opera come legislatore e giudicante nel contempo, perché prima di decidere il caso sottoposto al suo esame formula la regola di giudizio particolare da applicare. I limiti del giudizio di equità sostitutiva si possono desumere a contraio dall'ultimo comma dell'art. 339 c.p.c., che è stato introdotto dal d. lgs. 40/2006, al fine di rendere appellabili le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, ma solo per determinati motivi. In primo luogo il giudice è tenuto al rispetto delle norme sul procedimento; in secondo luogo le norme costituzionali o comunitarie; infine, i principi regolatori della materia. Sulla portata di questi termini si è molto discusso. Può aiutare a fare luce sul suo significato una sentenza della Corte costituzionale di pochi anni prima.
Insomma, l'uso dell'espressione «i principi regolatori della materia» da parte del legislatore è da mettere in connessione con la pronuncia di incostituzionalità (Corte cost., 6 luglio 2004, n. 206) dell'art. 113, comma 2, c.p.c. che ha sancito il vincolo del giudice di pace nelle pronunce secondo equità ai principi informatori della materia. In buona sostanza i principi in questione sarebbero da identificare con le linee essenziali della disciplina giuridica del rapporto dedotto in causa e, perciò, con materia si deve intendere i profili qualificanti dell'istituto che coinvolge il rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio (Cass. civ., 30 maggio 2007, n. 12691; Cass. civ., 22 aprile 2009, n. 9534). Il secondo comma dell'art. 113 c.p.c. stabilisce che il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non ecceda i millecento euro, ad esclusione di quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'art. 1342 c.c.. Preliminarmente, va specificato che non è logicamente pensabile che quando il giudice ritenga sia opportuno applicare la norma di legge, sia costretto, invece, a decidere secondo equità: la disposizione va letta piuttosto come la concessione al giudice di pace della facoltà di semplificare il giudizio nel momento in cui egli lo ritenga opportuno. Alcune considerazioni vanno fatte sui limiti posti dall'art. 113, comma 2. In primo luogo va detto che sono venute meno le ragioni che avevano spinto la giurisprudenza della Corte di cassazione a stabilire che in ogni caso il giudizio di equità poteva vertere solo su diritti disponibili, dovendosi applicare in via analogia l'art. 114 c.p.c. anche alle controversi di competenza del giudice di pace (Cass., 18 febbraio 2005, n. 3348; Cass., 29 settembre 2004, n. 19531; Cass., 14 maggio 2004, n. 9251; Cass., 7 maggio 2004, n. 8717; Cass., 18 marzo 2004, n. 5523; Cass., 12 giugno 2002, n. 8375). La Corte, infatti, rilevava: «(l'art. 114) esprime chiaramente il principio che la regola del giudizio equitativo non è compatibile con il carattere indisponibile delle situazioni dedotte in causa, deve necessariamente trovare applicazione anche per l'ipotesi in cui, per il modesto valore della controversia, è la legge a sottrarre la controversia all'applicazione delle norme di diritto. Evidentemente, un'espressa limitazione in questi sensi restava assorbita nel più ampio limite del rispetto dei principi generali della materia, ma, soppressa questa previsione (a seguito della soppressione del conciliatore e dell'istituzione del giudice di pace), in forza del principio fondamentale per cui un ordinamento non può contraddire se stesso …, da una parte, determinando un assetto inderogabile di interessi, e dall'altra autorizzando un giudice alla creazione per il caso singolo di una regola che tale assetto contrasti, risulta obbligata la lettura dell'art. 113 c.p.c. nel senso dell'esclusione dall'ambito del giudizio equitativo delle situazioni sottratte alla disponibilità delle parti». Si può ritenere che la riforma dell'art. 339 c.p.c. e l'introduzione all'ultimo comma della possibilità di impugnare le sentenza del giudice di pace emesse secondo equità per violazione dei principi regolatori della materia, ha fatto venir meno il fondamento del ragionamento di interpretazione analogica compiuto dalla Cassazione. L'altra l'esclusione disposta riguarda le cause derivanti da rapporti contrattuali nati mediante la sottoscrizione di moduli o formulari(c.d. contratti di massa o standard). La disciplina della materia è improntata alla tutela dei consumatori, che in tal modo concludono contratti spesso di entità modesta. La ratio che sottostà alla legislazione sul punto richiede che la materia venga trattata in maniera uniforme, a prescindere dal valore della controversia. Il giudizio di equità volontario (art. 114 c.p.c.) è ammesso quando il diritto dedotto in causa è disponibile e le parti ne fanno concorde richiesta. Sono disponibili i diritti che la parte può trasferire, comprimere o ai quali la parte può rinunciare, senza l'autorizzazione o il consenso di un autorità giudiziaria o amministrativa oppure di un terzo. Sono classici diritti indisponibili: i diritti della personalità (l'integrità fisica; l'integrità morale; la libertà personale, sociale e di pensiero; il nome), la maggior parte dei diritti non patrimoniali, derivanti dalla qualità di genitore, di figlio e di coniuge; il diritto agli alimenti; il diritto di quota nella comunione legale fra i coniugi, manente comunione. L'accordo delle parti per la pronuncia di equità può assumere le forme più svariate. In primo luogo, esso può essere contenuto negli atti di parte: la proposta nell'atto di citazione o ricorso e l'accettazione nella comparsa di costituzione e risposta. In secondo luogo, può essere avanzata una richiesta orale di entrambe le parti al giudice, messa successivamente a verbale. Infine, l'accordo può essere contenuto in un documento che le parti alleghino agli atti di causa, in cui si faccia espressamente riferimento ai fatti che consentono di indentificare la causa sulla quale il giudice deve decidere. Non sembra sia necessario, invece, che le parti indichino le ragioni della loro scelta. Non ci sono limiti di tempo per l'accordo che può sopraggiungere per tutto il corso del procedimento ed anche in appello. Ai sensi dell'art. 118 disp. att. c.p.c., secondo comma, nel caso previsto nell'art. 114 nella sentenza debbono essere esposte le ragioni di equità sulle quali è fondata la decisione. Non è chiaro il motivo per cui tale disposizione sia riferita alle sole sentenze frutto di equità volontaria, ma per evitare un'inutile disparità di trattamento questa norma è sicuramente da estendere anche ai giudizi di equità necessaria. Tanto più che in entrambi i casi le sentenze sono impugnabili e dall'esposizione delle ragioni della decisone potrebbero emergere i motivi del gravame. Ci si deve chiedere se in questo secondo tipo di giudizio di equità debbano o meno essere rispettati i principi regolatori della materia. Il fatto che il giudizio abbia ad oggetto solo diritti disponibili potrebbe far pensare che esso sia svincolato da essi; in senso contrario, a nostro avviso, depone la considerazione che il nostro sistema è basato sul principio di legalità e, quindi, che non si può consentire al giudice di decidere contro quelli che sono stati i valori ispiratori del legislatore nella regolamentazione di un istituto (vedi sopra Corte Cost. 6 luglio 2004, n. 206). Anche nel giudizio arbitrale le parti possono disporre che si decida secondo equità. In questa sede esse hanno una maggior libertà di movimento: infatti possono chiedere con qualsiasi espressione che gli arbitri si pronuncino secondo equità (art. 822 c.p.c.). Per i motivi che sono si sono esposti sopra, si deve ritenere che gli arbitri siano vincolati al rispetto dei principi regolatori della materia. I mezzi di impugnazione
Ai fini dell'individuazione dei mezzi di impugnazione bisogna distinguere a seconda che si tratti di sentenze di equità necessaria o volontaria. Nel primo caso le sentenze sono soggette ad appello per i motivi di cui all'art. 339, ultimo comma, c.p.c.ovvero per violazione di norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia, visti sopra. Se il tribunale come giudice d'appello annulla la sentenza per uno dei motivi enunciati, si pone il problema di come debba procedere alla sostituzione della sentenza, dal momento che non siamo davanti ad una delle ipotesi di rimessione della causa al primo giudice (artt. 353 -354 c.p.c). Secondo parte della dottrina (così Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2006, 200) dal momento che siamo al di fuori della previsione dell'art. 113, comma 2 c.p.c, a meno che le parti non ne facciano concorde richiesta, il tribunale deve decidere secondo diritto. In verità le ragioni di semplificazione che hanno spinto il legislatore ad attribuire al giudice di pace la facoltà di decidere secondo equità non vengono meno in secondo grado, così è presumibile che anche al tribunale sia data la facoltà di decidere secondo equità la causa. La sentenza pronuncia dal tribunale come giudice d'appello secondo equità è ricorribile in cassazione, apparentemente senza limitazioni di sorta, in verità i motivi di impugnazione espressi dall'ultimo comma dell'art. 339 sono abbastanza onnicomprensivi dei possibili vizi che può presentare una pronuncia secondo equità. Anche se il legislatore non è chiaro sul punto e ciò non emerge dal combinato disposto degli art. 339, ultimo comma e 395 c.p.c. è da ritenere che le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità siano soggette a revocazione, sia ordinaria che straordinaria, dato che i motivi di revocazione non possono essere fatti valere come motivi d'appello. Prima della riforma dell'art. 339, ultimo comma, c.p.c. ciò era possibile, in virtù del riferimento dell'art. 395 primo comma alle sentenze emesse in unico grado: tra le due disposizioni ora c'è un chiaro difetto di coordinamento, che se preso alla lettera darebbe luogo ad un vuoto di tutela. L'impugnazione per revocazione dovrà avvenire davanti al giudice di pace stesso. Non vi sono, invece, norme specifiche sull'impugnazione delle sentenze di equità volontaria o del lodo equitativo, perciò, sono applicabili le disposizioni comuni all'impugnazione delle altre pronunce, con i limiti dovuti alla peculiarità del loro oggetto. Riferimenti
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