Bancarotta: rappresentazione e volontà della deminutio patrimonii e non del fallimento
04 Luglio 2016
La Cassazione Penale, con la sentenza n. 26806/16, in tema di bancarotta per distrazione, e in contrasto con quanto espresso nelle sentenze n. 47502/12 e 41655/13, dispone che tra gli elementi necessari e sufficienti a far sorgere la responsabilità penale ex artt. 216 e 223, comma 1, l. fall. non è da ricomprendere l'esistenza di un nesso causale o psichico tra i fatti di distrazione e il successivo fallimento. I fatti di distrazione assumono rilievo penale, a seguito della dichiarazione di fallimento, anche se la condotta è stata realizzata in una situazione in cui l'impresa non si trovava ancora in condizioni di insolvenza.
La vicenda. Il socio e amministratore unico di una s.r.l. dichiarata fallita era stato condannato per reati di bancarotta per distrazione e per aver esposto nel bilancio fatti non coincidenti con vero. L'imputato ricorre in Cassazione contestando, tra i vari motivi, l'inosservanza degli artt. 40 e 43 c.p., e richiamando la passata sent. n. 47502/12 in cui era stato affermato che la dichiarazione di fallimento deve intendersi come elemento costitutivo del reato di bancarotta, così da essere necessario, ai fini dell'integrazione del reato ,la previsione e la volontà dell'agente, almeno nel grado dell'eventualità, dello stato d'insolvenza presupposto del fallimento.
No alla rappresentazione e volontà del fallimento. La Corte rigetta il ricorso proposto dall'imputato affermando che, con riferimento agli artt. 216 e 223, comma 1 l. fall., la condotta che la disposizione è volta a sanzionare non sia quella di aver cagionato lo stato d'insolvenza o di aver provocato il fallimento, bensì “quella di depauperamento dell'impresa, consistente nell'averne destinato le risorse ad impieghi estranei all'attività d'impresa medesima”. La rappresentazione e la volontà della condotta devono riferirsi alla deminutio patrimonii e non al fallimento. Esso si presenta come fondamentale ai fini del sanzionamento della condotta, ma non è richiesto che sia oggetto di rappresentazione e volontà. Né la previsione dell'insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile dell'atto dispositivo, né la percezione della sua preesistenza nel momento di compimento dell'atto sono da considerare necessari ai fini dell'antigiuridicità della condotta.
A corroborare tale opinione la Corte richiama un supporto letterale: quando il legislatore ha ritenuto necessario che venisse data rilevanza al nesso causale o psichico lo ha espressamente previsto, cosi come avviene nell'art. 223, comma 2, l. fall., da ciò deducendo che solo in alcune condotte è richiesto il nesso tra condotta e evento. Anche successivi interventi integrativi come il D.lgs. 61/2002 non hanno disposto integrazioni in tal senso. Ciò significa che l'imprenditore deve evitare condotte capaci di pregiudicare le ragioni dei creditori. Quest'obbligo è da intendere non nel senso di astenersi da comportamenti che abbiano in sé una potenziale perdita economica, ma da quelli che comportano una diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione d'impresa. |