Con la sentenza n. 17207/2013 la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare nuovamente la questione della riferibilità del privilegio stabilito dall'art. 2751-bis n. 2 c.c. (per credito vantato per le retribuzioni dovute ai professionisti e ai prestatori di opera intellettuale) al credito sorto da contratto di assistenza stipulato con uno studio legale associato.
Contrariamente alla decisione assunta dal giudice delegato e dal tribunale in sede di opposizione, e conformemente alla sentenza della corte di appello, ha ritenuto applicabile alla fattispecie la norma in esame, richiamando la propria giurisprudenza secondo cui la domanda di ammissione al passivo presentata dallo studio professionale associato determina una mera presunzione di esclusione della personalità del rapporto professionale, presunzione che resta superata in presenza di documentazione utile ad individuare i compensi come riferiti alle prestazioni svolte personalmente dal singolo associato.
I dubbi che, nonostante questi avvisi di legittimità, tuttora alimentano il dibattito si originano - in primo luogo - dalla regola generale della parità di trattamento tra i creditori (di cui il sistema dei privilegi costituisce un'eccezione), e - in secondo luogo - dalla ragione attributiva della preferenza (rinvenibile nella causa che fonda il credito, ritenuta dal legislatore meritevole di speciale tutela).
Sul primo profilo, il dubbio è dato dalla osservazione che il privilegio è attribuito al professionista e non anche alla diversa realtà dello studio professionale associato. Cosicché, atteso il carattere eccezionale della disposizione, la stessa non potrebbe disciplinare casi diversi da quelli espressamente regolati.
La Cassazione argomenta sulla possibilità di effettuare un'interpretazione (non analogica ma) estensiva della norma in questione, salvaguardando così il rapporto regola-eccezione e rispettando conseguentemente il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali.
In prima approssimazione, l'operazione ermeneutica potrebbe essere letta in considerazione del più generale contesto del dibattito che interessa il rapporto tra regola della parità di trattamento e relative eccezioni, dibattito innescatosi alla luce della legislazione nuova, introduttiva di numerosissime fattispecie di privilegio.
Questo fenomeno ha incoraggiato critiche ricorrenti e copiose alla regola generale della parità di trattamento, e anche le affermazioni su un suo preteso “affievolimento” (o addirittura superamento). Ma in realtà l'articolato catalogo di cause di garanzia e di prededuzione certamente presenti nel diritto della crisi di impresa, non dovrebbe indurre a revocare in dubbio l'esistenza della regola generale e la funzione ordinatrice da essa svolta nel sistema. Per quanto risulti banale, l'affermazione che le eccezioni supererebbero la regola, quand'anche fosse fondata, avrebbe rilievo nel mondo della statistica, ma non nel mondo del diritto: poiché, in altri termini, il rapporto regola-eccezione ha natura logica, non può essere criticato dietro un argomento semplicemente “quantitativo”.
Ne discende che l'operazione di interpretazione estensiva della regola eccezionale non potrebbe legittimarsi in considerazione di un ridotto ruolo attualmente svolto dalla regola nel sistema, ma necessiterebbe di ben più solide argomentazioni a supporto. E, infatti, la Cassazione giustifica attentamente l'applicazione estensiva della regola argomentando la ricorrenza, in determinati casi di prestazione professionale affidata a studio associato, delle stesse esigenze di tutela del credito professionale vantato dal prestatore isolato. Ritiene, a tal riguardo, che qualora sia documentabile la personalità della prestazione lavorativa, direttamente svolta dal singolo associato, si presentino le stesse ragioni di tutela ricorrenti per il prestatore isolato.
Nella sua assolutezza, il ragionamento non è tuttavia condivisibile.
Il fondamento del privilegio professionale non deriva dall'essere la prestazione personalmente realizzata dal professionista, ma dal fatto che il professionista realizza la prestazione svolgendo un'attività economica priva di qualsivoglia connotazione di impresa, connotata da un modesto valore organizzativo e fondata essenzialmente sulle capacità professionali del prestatore. Deriva, in altri termini, dalla assimilabilità della posizione economica del prestatore a quella del lavoratore (subordinato).
Evidentemente, qualsiasi prestazione di avvocato ha natura personale, essendo sempre una persona fisica abilitata all'esercizio dell'avvocatura a porre in essere la prestazione. Ma non è questa la questione. Non importa, ad esempio, che si operi personalmente nel processo (fatto inevitabile); rileva invece - e molto diversamente - se si operi o meno personalmente sul mercato. Rileva, in sostanza, se si operi sul mercato in prima persona e assumendo il rischio tipico del lavoratore autonomo, oppure nell'ambito di un'organizzazione a carattere imprenditoriale (la quale sopporta il rischio complessivo dell'attività poi concretamente esercitata dai singoli avvocati che a vario titolo e secondo una precisa scala gerarchica ricoprono ben determinate posizioni nell'ambito di quella organizzazione). Solo nel primo caso, infatti, può dirsi ricorrere la ragione della preferenza stabilita nell'art. 2751-bis n. 2 c.c.: ossia la natura lavorativa, e dunque alimentare, del credito vantato verso il fallito. Nel secondo caso si apprezza esclusivamente un tipico rischio di impresa.
Ecco allora che il carattere personale non potrebbe mai pertinentemente riferirsi alla prestazione svolta - come pure argomenta la giurisprudenza in esame - e dovrebbe invece concernere la dimensione organizzativa in cui la stessa si realizza.
Su questo diverso criterio potrebbero meglio discriminarsi i crediti assistiti da privilegio dai crediti immeritevoli della preferenza.