Rifiuto genitoriale e crisi familiare: l’esperto per la fase attuativa degli interventi

03 Luglio 2025

La riforma Cartabia stabilisce che, in caso di rifiuto di un figlio di incontrare uno o entrambi i genitori, è compito prioritario del giudice indagare sulle cause tramite l'ascolto del minore. È fondamentale determinare se il rifiuto è dovuto a comportamenti negativi del genitore rifiutato o a condotte ostative dell'altro genitore.

Premesse

La riforma Cartabia è chiara su come occorre procedere nei casi in cui un figlio rifiuti un genitore. È il giudice che deve prioritariamente accertarne le cause, attraverso la pratica dell’ascolto del minore. L’art. 473-bis.26 c.p.c. così recita: Quando il minore rifiuta di incontrare uno o entrambi i genitori, il giudice procede all'ascolto senza ritardo, assume sommarie informazioni sulle cause del rifiuto e può disporre l'abbreviazione dei termini processuali”.

     Si tratta di comprendere, avvalendosi dei mezzi di prova tipici e specifici della materia, se il rifiuto sia determinato da comportamenti negativi (in senso commissivo od omissivo) da parte del genitore rifiutato, ovvero se la causa risieda in condotte ostative agite dall’altro genitore. Così si esprime, per quanto riguarda la seconda ipotesi, il succitato articolo al comma 2: Allo stesso modo il giudice procede quando sono allegate o segnalate condotte di un genitore tali da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo tra il minore e l'altro genitore o la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. Sono questi ultimi i casi riconducibili alla c.d. “alienazione parentale”, in cui il figlio viene direttamente esposto al conflitto tra i due genitori (non di rado, tra le due “stirpi” familiari) ed “assorbe” i sentimenti di ostilità che un genitore esprime verso l’altro dopo la separazione, facendoli propri. 

     La letteratura internazionale distingue infatti due condizioni:

  • “Estraniazione” (estrangement): rifiuto di un bambino nei confronti di un genitore giustificato in quanto conseguenza di violenza familiare, abuso e trascuratezza da parte del genitore rifiutato;
  • “Alienazione” (alienation): rifiuto ingiustificato di un bambino nei confronti di un genitore, con sentimenti e credenze irragionevolmente negative che sono significativamente sproporzionate rispetto all’esperienza attuale del bambino con quel genitore (Harman et al., 2022).

     Nel secondo caso occorre agire ed intervenire con la dovuta tempestività, per evitare che la situazione si radichi e si stabilizzi. Il rispetto degli interessi del figlio si lega strettamente alla tutela dei suoi interessi costituzionalmente garantiti, tra i quali assume un rilevo specifico il diritto alla bigenitorialità.

 Gli esiti clinici

Sul piano psicologico, la perdita dei contatti con un genitore rappresenta una adverse childhood experience (ACE), ovvero un’esperienza negativa carenziale in grado di incidere sul processo di sviluppo.

      È importante sottolineare alcuni danni psicobiologici correlati alla perdita/carenza genitoriale (parental loss). Ad esempio, in una ricerca Tyrka et al. (2008) hanno riscontrato che i soggetti con anamnesi positiva per separazione dei genitori o abbandono e quelli con perdita di un genitore in età infantile avevano più probabilità rispetto ai controlli di soffrire una successiva insorgenza di disturbi d’ansia o depressivi; Nicolson (2004) ha mostrato che i livelli di cortisolo in giovani adulti sono cronicamente innalzati se nell’infanzia questi erano stati soggetti a perdita genitoriale o altre childhood adversities.

      Nelle Linee Guida per la valutazione medico-legale del danno alla persona in ambito civilistico redatte dalla Società di Medicina Legale e delle Assicurazioni (Giuffrè, 2016) così si legge nel paragrafo Ostacoli ai diritti di visita ed al diritto del minore alla bigenitorialità: «Qualora il coinvolgimento del minore nel conflitto familiare (in un contesto di separazione dei genitori: nel DSM-5, “Disgregazione della famiglia a causa di separazione e divorzio”’ e/o “Alto livello di emozioni espresse all’interno della famiglia”) abbia determinato reazioni transitorie esse rientrano in una compromissione delle capacità di adattamento descritte in precedenza, eventualmente legate all’insorgenza di un Disturbo dell’Adattamento. Il DSM-5 inquadra tali reazioni, riconducibili all’ ‘alienazione’ di una figura genitoriale (che le Linee Guida in tema di abuso sul minore - SINPIA, 2007 - considerano come una forma di abuso psicologico), tra i Problemi Relazionali, e precisamente tra i “Problemi correlati all’allevamento dei figli”:“Problema relazionale genitore-bambino” oppure “Effetti negativi del disagio relazionale dei genitori sul bambino”. Quest’ ultima categoria deve essere utilizzata quando l’oggetto di attenzione clinica risiede negli effetti della discordia nella relazione genitoriale (alti livelli di conflitto o denigrazione ai danni di un genitore) su un bambino in famiglia e comprende gli effetti sul suo disturbo mentale. Ove, in casi selezionati, le suddette reazioni assumano una spiccata valenza ansiosa (Disturbo d’ansia di separazione) e/o compromettano il funzionamento psicologico e sociale si potrà configurare un pregiudizio grave rispetto al processo di sviluppo, con possibile modificazione della personalità e conseguente danno biologico di natura psichica con carattere di permanenza. Il nucleo patogeno di queste condizioni è identificabile nel c.d. “conflitto di lealtà” che lega il bambino ad un genitore a discapito dell’altro e che rappresenta un importante fattore di rischio».

     Verrocchio e Baker (2013), nelle loro ricerche, hanno mostrato che i figli coinvolti nei conflitti tra i genitori dopo la separazione e che sviluppano conflitti di lealtà hanno elevate probabilità di andare incontro a problemi psicopatologici nella prima età adulta.

     Come scrivono P. Kernberg et al. (2000)., «L’intensità e la cronicità degli scambi genitoriali, particolarmente in quel 10% di divorzi descritto come ad alta conflittualità, influenza in modo vario lo sviluppo da parte del bambino di tratti patologici di personalità. (…) La loro immagine di sé è deteriorata ed inadeguata. Cercano di affrontare il mondo poggiando sul proprio giudizio, disattendendo inflessibilmente i segnali dei propri sentimenti. Le emozioni sono sospette e devono essere evitate. I bambini, di conseguenza, coartano ogni espressione dei sentimenti e deprivano se stessi degli ulteriori scambi emotivi con gli altri, così cruciali per uno sviluppo sano. Gli affetti che sperimentano più facilmente sono la rabbia e l’alienazione; affermano un qualche senso di sé assumendo una posizione oppositiva. Le loro conclusioni riguardo se stessi, gli altri e le situazioni che sperimentano sono distorte perché la loro capacità di vedere e pensare accuratamente sul mondo è disfunzionante».

Gli interventi

Interventi tempestivamente attuati possono rivestire una funzione di prevenzione secondaria e terziaria in senso sanitario, evitando sequele dannose per lo sviluppo stesso della personalità.

     L’elemento temporale è del tutto cruciale in queste situazioni. Se si giunge alla fase del c.d. “consolidamento” (cfr. Camerini e Pingitore, 2023), ancor più se il figlio è giunto alla fase adolescenziale, ogni intervento risulterebbe inutile, non potendosi attuare disposizioni coercitive nei confronti di un ragazzo o di una ragazza maturo/a ed in grado di autodeterminarsi. Né avrebbero alcun senso terapie psicologiche rivolte al riavvicinamento tra il genitore ed il figlio, in assenza di una motivazione e di una disponibilità in tal senso da parte di quest’ultimo. 

    Le stesse considerazioni valgono per le terapie psicologiche indirizzate al genitore, sia a quello oggetto del rifiuto sia a quello prescelto dal figlio, in assenza di un esplicito consenso informato. 

     I tempi di un eventuale cambiamento sarebbero comunque lunghi e non si concilierebbero con quelli del procedimento giudiziario. 

     Le terapie psicologiche (anche solo suggerite o indicate) rivolte ad un genitore presentano profili di anticostituzionalità, come è stato ulteriormente precisato in una pronuncia della Suprema Corte (n. 17903/2022): «Questa Corte ha già statuito che, in tema di affidamento dei figli minori, la prescrizione ai genitori di un percorso psicoterapeutico individuale e di un altro, da seguire insieme, di sostegno alla genitorialità, comporta comunque, anche se ritenuta non vincolante, un condizionamento, per cui è in contrasto con l'art. 13 Cost. e art. 32 Cost., comma 2, atteso che, mentre l'intervento per diminuire la conflittualità, richiesto dal giudice al servizio sociale, è collegato alla possibile modifica dei provvedimenti adottati nell'interesse del minore, quella prescrizione è connotata dalla finalità, estranea al giudizio, di realizzare la maturazione personale delle parti, rimessa esclusivamente al loro diritto di autodeterminazione. (Cass. 1 luglio 2015, n. 13506). Analogamente, nel caso di specie, se è pur vero che il decreto impugnato non ha imposto un vero e proprio obbligo alla ricorrente di intraprendere un percorso psicoterapico per superare le criticità del suo rapporto madre - figlia, avendo esplicitato che si tratta di un invito giudiziale, è indubbio che tale statuizione integri una forma di condizionamento idonea ad incidere sulla libertà di autodeterminazione alla cura della propria salute, garantita dall'art. 32 Cost.».

     La Corte Eur. Dir. Uomo, sez. II, nella sentenza 29 gennaio 2013 (Pres. Jočienė), Affaire Lombardo c/ Italia, così si esprimeva: «Dall’art. 8 della Convenzione, derivano obblighi positivi dove si tratti di garantire il rispetto effettivo della vita privata o familiare. Questi obblighi possono giustificare l’adozione di misure per il rispetto della vita familiare nelle relazioni tra gli individui, e, in particolare, la creazione di un arsenale giuridico adeguato ed efficace per garantire i diritti legittimi delle persone interessate e il rispetto delle decisioni dei tribunali. Gli obblighi positivi di cui si discute non si limitano al controllo a che il bambino possa incontrare il suo genitore o avere contatti con lui ma includono l’insieme delle misure preparatorie che permettono di raggiungere questo risultato. Per essere adeguate, le misure deputate a riavvicinare il genitore con suo figlio devono essere attuate rapidamente, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui. Non deve, dunque, trattarsi di misure stereotipate ed automatiche».

     È invece necessario, per ripristinare i diritti in gioco, intervenire nelle prime fasi del rifiuto, prima del suo consolidamento. Esso infatti non si realizza ex abrupto ma conosce solitamente cambiamenti progressivi e passaggi psicologici così sintetizzati da Camerini e Pingitore (2023):

Buone e cattive prassi

È di recente pubblicazione il libro Rifiuto genitoriale a cura di Conti P., Amato T., Odino A., Camerini G.B., Lopez G. e Gennari G. (Esculapio, 2025), in cui si propongono gli interventi più congrui ed efficaci in questi casi.

       Uno degli interventi più frequentemente posti in essere nel nostro Paese per favorire il recupero relazionale tra figli e genitori esclusi riguarda i cosiddetti incontri “protetti” in “spazio neutro”, non di rado accompagnati da sessioni di supporto psicologico o psicoterapia per il figlio, psicoterapia familiare e/o parent training. Questa fattispecie di incontri “protetti” genera una sorta di paradosso paradigmatico del setting: il genitore che ha subito l’esclusione è spesso quello da cui il figlio viene tecnicamente “protetto”, mentre quello che l’ha cagionata è spesso considerato una “base sicura” presso cui mantenere collocato il figlio. Per meglio comprendere il paradosso, va anche considerato che gli incontri “protetti” nascono per favorire il diritto alla continuità relazionale tra figli abusati o maltrattati e genitori abusanti o maltrattanti e seguono pertanto un’impostazione metodologia conseguente (Lopez, 2018), laddove servirebbero invece programmi d’intervento specifici per i casi di rifiuto genitoriale. L’esperienza di lavoro rileva, altresì, come nella stragrande maggioranza dei casi questi programmi di trattamento non risolvano il rifiuto né le pressioni condizionanti da parte del genitore alienante o sottrattore, dando non di rado luogo ad ulteriori ricorsi giudiziari da parte del genitore escluso.

     In assenza di specifica preparazione ed esperienza nel trattare bambini gravemente condizionati al rifiuto, gli operatori della salute mentale e della giustizia rischiano, altresì, di trovarsi confusi e di venire tratti in inganno nel tentativo di decodificare il comportamento del figlio, ritenendo erroneamente che alla base di esso possano esservi delle pur valide motivazioni, soprattutto quando siano state generate dichiarazioni fuorvianti contro il genitore rifiutato (Milchman, 2024; Reay, 2015).

     Con questi presupposti le terapie tradizionali sono condannate al fallimento ancor prima di essere intraprese. Non è certo una terapia individuale che può risolvere queste situazioni: gli studi di settore considerano questo approccio inutile e controproducente. Sul profilo tecnico scientifico, va infatti rilevato come nelle situazioni di rifiuto o di negativismo acritico da parte del figlio nei riguardi di un genitore, i tradizionali trattamenti a carattere psicoterapico sono stati riconosciuti inefficaci o addirittura iatrogeni (Fidler et al., 2013; Lorandos, 2020; Miller, 2013; Rand e Kopetski, 2005). Simili interventi, infatti, rischiano di aumentare il livello di conflittualità o di deresponsabilizzazione dei genitori condizionanti, delegando a terzi la soluzione dei problemi che essi continuano a generare e perpetrare. Inoltre, la prescrizione di un “percorso” di terapia o di mediazione in favore dei figli solitamente non prevede sanzioni in caso di inadempienza, né ulteriori e più drastici provvedimenti in caso di mancata risoluzione del rifiuto. È evidente come tali presupposti possano incoraggiare nel genitore favorito e nel figlio ad esso alleato un’adesione meramente formale al trattamento, anche quando questo è prescritto dall’autorità giudiziaria.

     Poiché la maggior parte dei bambini gravemente alienati ha mantenuto posizioni ferme contro qualsiasi relazione con il genitore bersaglio per anni, le terapie tradizionali, in cui alle parti viene chiesto di esaminare il passato e discernere "la verità", finiscono per fallire poiché i bambini si rifiutano di accettare la responsabilità e "perdono la faccia". Il problema delle terapie tradizionali con questa popolazione è aggravato dalla continua presenza del genitore “dominante” nella vita del bambino, la cui mancanza di rispetto per gli ordini del Tribunale e la manipolazione incessante del bambino sabotano gli sforzi di riunificazione. Piuttosto, una riunificazione efficace delle famiglie che soffrono di grave alienazione genitoriale richiede un approccio diverso, mirando all'educazione al pensiero critico ed alla risoluzione dei conflitti, combinata con una separazione temporanea dal genitore dominante.

     La psicologa statunitense Kathleen Reay ha ben definito i vari fattori che concorrono al fallimento dei trattamenti psicoterapici tradizionali nei casi gravi di rifiuto relazionale verso un genitore separato: assenza di specializzazione degli operatori socio-sanitari sui temi del rifiuto genitoriale immotivato; mancato ricorso a protocolli specifici per il trattamento dei casi gravi di rifiuto, molto diversi da quelli lievi o moderati; collusione da parte di operatori inesperti con le tesi accusatorie del genitore condizionante e con le futili motivazioni del rifiuto addotte dal figlio;  dubitazioni aprioristiche verso il genitore escluso ed ingiustamente accusato; assenza di formazione degli operatori sul fenomeno dei falsi abusi e falsi maltrattamenti; caratteristiche personologiche dei genitori condizionanti che spesso presentano disturbo borderline, paranoico o  narcisistico di personalità e/o tratti sociopatici; indisponibilità dei figli e del genitore condizionante ad accettare narrazioni diverse dei fatti ed a sviluppare l’alleanza terapeutica spontanea prevista dalla terapia tradizionale; indisponibilità dei genitori condizionanti ad essere esaminati da terzi, inclusi i curiosi psicologi; assenza di motivazione da parte del genitore condizionante e del figlio a favorire il riavvicinamento al genitore escluso e dunque, implicito boicottaggio della terapia; infine, la psicoterapia tradizionale non contempla tecniche di contrasto dei comportamenti di rifiuto genitoriale (Reay, 2015). Dunque, per superare il rifiuto e la paura del figlio alienato verso il genitore escluso e per ripristinare la loro relazione, sono necessari programmi di trattamento vigorosi e specifici, ben diversi dalla terapia tradizionale (Warshak, 2010a).

Verso la definizione di linee guida

Lo psicologo clinico forense e ricercatore americano Demosthenes Lorandos (2020), sulla scorta della disamina di una vasta casistica, ha dimostrato che per superare il persistente rifiuto immotivato di un figlio verso un genitore è necessario un intervento specifico, che preveda una fase di “disintossicazione” dal genitore condizionante, il quale continua peraltro ad assumere atteggiamenti e comportamenti che sabotano sia le ordinanze del tribunale, sia gli sforzi terapeutici di riunificazione. Gli interventi di cosiddetto Family Bridging, incentrati sull’educazione al pensiero critico e sulla risoluzione dei conflitti, combinate con un breve periodo di separazione dal genitore condizionante (Warshak, 2010b), si sono dimostratati molto efficaci nel riparare le situazioni di rifiuto genitoriale immotivato, con miglioramenti significativi e immediati che durano per anni. Questi interventi si rivolgono a tre tipi principali di bambini gravemente alienati, quelli che

1. rifiutano il genitore dopo il divorzio,

2. rifiutano e/o resistono al contatto con un genitore e

3. hanno una relazione seriamente tesa con un genitore, che si manifesta come "estremo ritiro o grave disprezzo". Utilizzando principi di istruzione basati sulle prove per massimizzare l'apprendimento e creare un'atmosfera sicura, i bambini alienati sviluppano capacità per resistere alle pressioni esterne, mentre i genitori rifiutati imparano a gestire con sensibilità il comportamento dei loro figli e la famiglia impara gli strumenti per comunicare e gestire efficacemente i conflitti.

     Il programma è dedicato all'intervento educativo piuttosto che a uno terapeutico ed aiuta tutti i partecipanti a comprendere come si verificano le distorsioni nella memoria, nella percezione e nel pensiero, il ruolo della suggestionabilità e della formazione di stereotipi negativi e la facilità con cui ciò accade (Warshak, 2010b; Kelly, 2010; Rand, 2018). Contribuendo ad una tendenza a interpretare eventi neutri in una luce benigna e aiutando ad alleviare la gestione di inevitabili irritazioni e disaccordi, il programma promuove un'"abbondanza di esperienze positive" (Warshak, 2010b). Per facilitare questo lavoro, il programma si svolge solitamente in un ambiente informale, simile a un resort, che aiuta a creare un senso di tranquillità, con opportunità di “passare il tempo” con il genitore rifiutato se il bambino lo desidera (Kelly, 2010; Rand, 2018).

     È evidente come i programmi di Family Bridging sperimentati in Nord America non possono essere replicati tout court in Italia per via delle differenze strutturali tra il sistema di welfare pubblico-universalistico nostrano e quello prevalentemente liberale-privatistico nordamericano. Tuttavia, a fronte di una formazione specialistica degli operatori preposti, dell’opportuno allestimento degli spazi di lavoro, del reperimento di appositi materiali e strumenti pedagogici, è possibile estrapolare i principi fondanti dei programmi di Family Bridging ed adattarli al setting di spazio neutro. Quest’ultimo non è quindi più da intendersi come sede di “incontri protetti” a sfondo psicoterapico, bensì come laboratorio pedagogico in cui “disintossicare” il figlio dai condizionamenti del genitore favorito, supportandolo nel ripristino della relazione con quello rifiutato.

Piano giudiziario e piano psicologico: la collaborazione con le diverse figure professionali

Risulta quindi cruciale un coordinamento tra il piano giudiziario e quello psicologico, ovvero tra i provvedimenti che il giudice può assumere e le indicazioni fornite dall’esperto. Il primo esercita il potere necessario, in virtù dell’ “arsenale giuridico” (per usare la definizione della CEDU) di cui dispone, per garantire l’effettività dei diritti ed il rispetto delle decisioni all’interno di determinati “binari” processuali; l’esperto che opera nello stesso caso possiede le conoscenze per selezionare e attivare gli interventi più adeguati al contesto relazionale al quale si rivolgono, tenendo conto dei fattori di rischio e protettivi e del loro bilanciamento. 

    Diverse volte, nei casi di rifiuto di un genitore, il giudice ricorre alla consulenza tecnica d’ufficio. Il CTU può ad esempio decidere di “forzare” il riavvicinamento del genitore al figlio, magari realizzando gli incontri presso il proprio studio oppure avvalendosi di una figura educativa che li assista e li sovrintenda come “facilitatore”. Tutto ciò si può realizzare se il genitore “incube”, prescelto dal figlio, presta la propria collaborazione. Ma come agire se questo non avviene e il genitore assume un atteggiamento resistente? Lo stesso interrogativo si pone quando sia il figlio, già in età preadolescenziale, mostri reazioni fortemente oppositive. Capita spesso, in queste situazioni, che la parte resistente invochi il pericolo di una “traumatizzazione” derivante da una “forzatura della volontà” del figlio. Si dimentica che le eventuali reazioni disadattive di ansia o di rabbia, per lo più temporanee, possiedono un carico patogeno ben inferiore a quello determinato da una sospensione prolungata (se non duratura) dei rapporti genitore-figlio.

    Le indicazioni del CTU richiedono quindi uno stretto coordinamento con il giudice perché si possano attuare e rischiano di restare lettera morta qualora il coordinamento non si realizzi o conosca ritardi, per esempio se l’intervento non si concretizza in corso di CTU e viene rinviato dopo il suo termine, magari delegandolo ad un’agenzia sociale. In quest’ultimo caso si riproduce lo stesso problema, in quanto al Servizio non vengono assegnate valenze esecutive e di controllo delle decisioni giudiziarie e si richiederebbero, quindi, ulteriori pronunce del giudice.

     Anche la figura del curatore speciale, che la Riforma Cartabia prevede in caso di elevata conflittualità, rischia di risolversi in raccomandazioni prive di un reale impatto sulle relazioni familiari. Si tratta infatti, per superare il rifiuto, di insistere nel creare ravvicinate occasioni di contatto tra genitore e figlio per ripristinare il loro rapporto, intensificandole gradualmente e stabilendo entro quali tempi esse debbano prescindere dalla presenza del facilitatore. Al contempo, può rendersi necessario indurre la collaborazione del genitore incube, ad esempio disponendo che sia lui ad accompagnare il figlio agli incontri ovunque essi si svolgano. Qualora tale collaborazione sia negata o risulti carente, il giudice ha facoltà di sollecitarla attraverso provvedimenti di tutela inibitoria (le astreintes del Code Civil francese), come previsto dall’articolo 614 bis c.p.c., volti a rendere esecutive le decisioni assunte. 

    Ancora una volta, risulta centrale la collaborazione tra giudice ed esperto.   

     In questa prospettiva la formulazione dell’articolo 473-bis.6 c.p.c., secondo il quale il giudice, su istanza congiunta delle parti, può nominare uno o più ausiliari, scelti tra gli iscritti all'albo dei consulenti tecnici d'ufficio, o al di fuori dell'albo se vi è accordo delle parti, per intervenire sul nucleo familiare al fine di superare i conflitti tra le parti, fornire ausilio per i minori e agevolare la ripresa o il miglioramento delle relazioni tra genitori e figli, qualifica esplicitamente la funzione della c.d. “coordinazione genitoriale” in sede intraprocessuale e non, come era stata originariamente concepita, come pratica ADR ovvero di risoluzione extragiudiziale dei conflitti. Questa figura assume una connotazione ibrida, ponendosi a cavallo tra gli interventi di sostegno e di mediazione (“superare i conflitti tra le parti, fornire ausilio per i minori e agevolare la ripresa o il miglioramento delle relazioni tra genitori e figli”) e le funzioni del CTU.

     Il giudice individua gli obiettivi dell'attività demandata all'ausiliario tra quelli indicati nel primo comma, e fissa i termini, anche periodici, entro cui l'ausiliario deposita una relazione sull'attività svolta e quelli entro cui le parti possono depositare note scritte, analogamente a quanto si prevede per l’invio della “bozza” e le repliche delle parti. Il professionista citato agisce quindi a prescindere dal consenso informato delle parti (in quanto ausiliario del giudice) ma nel rispetto del contraddittorio tra di loro. Sono però le parti stesse che ne richiedono l’intervento. 

    Tali contraddizioni, apparentemente insanabili, potrebbero essere superate utilizzando il professionista e le funzioni a lui affidate nei casi in cui occorra provvedere a risolvere una condizione di rifiuto da parte del figlio nei confronti di un genitore. Il giudice potrà selezionare tra le funzioni svolte dal professionista quelle indirizzate a “fornire ausilio per i minori e agevolare la ripresa o il miglioramento delle relazioni tra genitori e figli”, attraverso varie azioni:

-        disporre incontri tra figlio e genitore, eventualmente avvalendosi di un educatore con funzioni di intermediario individuato nel “privato sociale”, a carico di entrambi i genitori;

-        monitorare l’andamento degli incontri;

-        fornire indicazioni comportamentali all’uno e all’altro genitore, verificando che siano rispettate; 

-        considerare quando realizzare gli incontri in forma libera e non assistita; 

-        valutare se e quando il riavvicinamento si sia sufficientemente consolidato.

    È evidente come la riuscita dell’intervento sia connesso al ruolo dell’esperto inteso come ausiliario del giudice, in grado quindi di rendere cogenti i provvedimenti assunti rispettando i tempi previsti. 

     Occorre rilevare che la possibilità di nominare più esperti (“uno o più ausiliari), prevista dall’articolo, consente al Giudice di operare interventi coerenti con i principi del Family Bridging, ovvero svolti attraverso incontri in diversi ambiti (spazi esterni, educative domiciliari, eventuali strutture diurne) in forma integrata, fornendo anche indicazioni operative ai genitori. 

Il quadro d’insieme

Il legislatore della riforma Cartabia ha inteso introdurre norme specifiche per il processo che riguarda le persone, i minorenni e le famiglie, optando per un modello dai tratti spiccatamente contenziosi, dal quale emerge un’ottica prevalente: quella di mettere al più presto le parti in conflitto in condizione di “giocarsi” immediatamente tutte le proprie carte. Questa prospettiva non sempre corrisponde a ciò che è più utile.

I termini strettissimi (20-10-5 e rispettivamente 10, 5 e 2,5 gg. in caso di riduzione dei termini processuali) per le memorie istruttorie, tutte anticipate rispetto alla prima udienza, tradiscono l’obiettivo preminente curato dai conditores: quello di ridurre ai minimi mezzi l’impegno richiesto all’autorità giudiziaria.

Se ciò può dirsi apprezzabile nei casi nei quali la vertenza è basata su prove documentali, ovvero non necessita di approfondimenti, di tal ché essa potrebbe essere decisa perfino all’esito di un’unica udienza (in questo senso Carlo Rimini, Relazione al convegno Area Democratica per la Giustizia, Genova, 10 marzo 2023), purtroppo non trova corrispondenza in tutti gli altri casi, maggioritari, nei quali il solo esame allo stato degli atti non può dirsi sufficiente.

A dispetto degli obiettivi di promozione delle alternative al contenzioso giudiziario, la pur (oggi) riconosciuta mediazione familiare non trova un proprio spazio, sia perché meramente facoltativa, quindi lasciata alla volontà delle parti (neppure si è pensato di introdurre un passaggio informativo obbligatorio sulla mediazione familiare), sia perché inserita in una fase di vera e propria escalation del conflitto che la contraddice in radice.

Anche la negoziazione assistita da avvocati, che pure rappresenta una valida alternativa, non è incentivata da robuste misure di incentivazione e promozione, ad esempio fiscale, né agevolata attraverso il riconoscimento di un vero ruolo istituzionale in capo agli avvocati che la utilizzano.

L’apparato di soggetti pubblici e privati interessati dal nuovo processo della famiglia (mediatore familiare, professionista dell’ascolto del minore, Ctu, esperto coordinatore genitoriale, servizi socio sanitari, curatore speciale

) non è contemplato nelle procedure di negoziazione assistita, fatti salvi rari casi nei quali gli avvocati sperimentano forme di intervento integrato con i professionisti dell’area socio-psico-pedagogica, non distanti dal lavoro di squadra tipico del diritto o  pratica collaborativa (Metodo di risoluzione pacifica delle vertenze e al contempo comunità di professionisti che si raccolgono intorno a principi e clausole d’intervento condivise, fondate sui principi della buona fede, della lealtà e trasparenza e sull’esclusione in radice della prospettiva contenziosa.).

Tornando all’ambito prettamente giudiziario, i casi che non possono esaurirsi con un pronunciamento definitivo all’esito della prima udienza, sono quelli che di regola richiedono un’attività impegnativa, per cui il giudice provvede sulle istanze istruttorie e predispone il calendario del processo, ma nel contempo è chiamato altresì ad assumere, se occorre d’ufficio, tutti gli ampi poteri che la legge gli conferisce a tutela del minore: quello di nominare il curatore speciale al minore, di adottare i provvedimenti opportuni anche in deroga alla regola della domanda di parte, disporre i mezzi di prova, persino al di fuori dei limiti di ammissibilità previsti dal codice civile.

Si tratta quindi di poteri molto ampi, giustificati dalla necessità di tutelare il prevalente interesse del soggetto di minore età, clausola quest’ultima quanto mai generale e sfuggente, alla quale tutti a parole tendono e dichiarano di ispirare la propria azione (In questo senso la riforma Cartabia, anziché superare l’ottica paternalistica propria dei Tribunali per i Minorenni, sembra piuttosto averla estesa anche ai procedimenti dinnanzi ai Tribunali ordinari.).

Si tratta però di poteri assoluti e indefiniti, che lasciano praticamente ogni decisione ad un giudice, che può solo auspicarsi specializzato. A costui compete, non solo la decisione finale, ma la stessa conduzione del processo, come pure l’assunzione dei mezzi di prova.

A differenza però del processo civile ordinario, nel quale la prova, nel suo significato tecnico, trova la sede di esplicazione sua propria, nel processo che riguarda le relazioni familiari essa impatta con sensibilità molto diverse, che spesso tradiscono un’impostazione piuttosto autoritaria, quando non inquisitoria.

Ne è riprova la frequenza con la quale le istanze di parte per l’ammissione delle prove orali (per interpello e per testimoni) vengono disattese o respinte dai giudici designati.

In questi casi il giudice in genere si affida all’operato dei servizi, ovvero a quello di un perito (Ctu), con tutti i limiti di un’attività che deve rispondere ad un mandato limitato ovvero ad un quesito specifico, non sempre corrispondenti alle esigenze del singolo caso, anche perché il soggetto committente necessita dell’intervento di questi ausiliari proprio per conoscere approfonditamente le necessità proprie di quella famiglia sotto esame.

Ma una volta conosciuto il caso e le esigenze di quel nucleo, servirebbe intervenire subito, per porre rimedio al conflitto, in quella che deve considerarsi la fase cruciale per l’efficacia dell’intervento.

I limiti del sistema

Nel processo che riguarda le relazioni familiari è all’operato dei Servizi del territorio che i giudici guardano in via preferenziale, facendo proprie le prassi invalse negli anni scorsi presso i Tribunali per i Minorenni.

Ma nel momento stesso in cui il legislatore della riforma si è posto il problema di  disciplinare le attività dei Servizi Pubblici, ci si accorge di quante cautele abbia apprestato, proprio per ridurre il rischio “discrezionalità” insito nell’autonomia propria di questi soggetti: l’art. 473-bis.27 c.p.c. affida ancora una volta ad un giudice -  onnipotente e onnisciente - la delimitazione delle attività demandate ai servizi sociali o sanitari, con l’obiettivo che queste attività siano rese in tempi certi e definiti, e avendo cura di precisare che nelle relazioni sono tenuti distinti i fatti accertati, le dichiarazioni rese dalle parti e dai terzi e le eventuali valutazioni formulate dagli operatori che, ove aventi oggetto profili di personalità delle parti, devono essere fondate su dati oggettivi e su metodologie e protocolli riconosciuti dalla comunità scientifica, da indicare nella relazione (II comma).

Il legislatore avrebbe potuto optare per una soluzione già collaudata in altri ordinamenti stranieri: quella dei Servizi sociali specialistici, inseriti nella compagine del Ministero della Giustizia, al servizio del sistema giudiziario, analogamente a quanto fatto a suo tempo con gli U.S.S.M.: Uffici Servizio Sociale Minori, dipendenti dal Ministero della Giustizia, Dipartimento per la Giustizia Minorile e Comunità.

La stessa Commissione ministeriale che ha predisposto le linee portanti della riforma è la prima a riconoscere i limiti del sistema con riguardo all’operato dei Servizi pubblici territoriali. La relazione illustrativa, di accompagnamento al decreto legislativo attuativo della legge delega 206/2021, infatti, ne dà conto, dichiarando a questo proposito: Nella prassi, infatti, nelle ipotesi di elevatissima conflittualità genitoriale, in alcuni territori, anche a causa delle croniche carenze di organico, i responsabili del servizio sociale affidatario, non sono in grado di compiere le scelte relative al minore anche quando espressamente attribuite nel provvedimento giudiziale di nomina, con rimessione delle stesse all’autorità giudiziaria attraverso l’invito al genitore interessato alla decisione ad investire della stessa il tribunale, con realizzazione di situazioni di stallo che possono creare pregiudizio per il minore (pag. 61).

La soluzione adottata, indice ancora una volta della sfiducia del legislatore verso le agenzie pubbliche, è stata quella della nomina di un curatore speciale del minore, professionista privato, in genere avvocato, anch’egli auspicabilmente formato e specializzato, al quale affidare il compito di fronteggiare i limiti intrinseci al sistema delle tutele.

Il compito di una corretta assunzione di scelte nell’interesse del minore è così assegnato al combinato e congiunto operare del curatore speciale del minore, talvolta dotato anche di poteri sostanziali, oltreché di rappresentanza processuale, in uno alla contemporanea delega ai servizi del territorio, purché i compiti di entrambi siano stati dettagliatamente definiti nel provvedimento di nomina.

Non si esclude che vi possano essere stati dei pur virtuosi esempi di intervento congiunto Curatore-Servizi, che abbiano consentito di raggiungere un sostanziale equilibrio nella gestione della prole.

Resta però l’impressione di una generale delega fideistica all’operare di terzi delegati.

Al giudice del fascicolo con molta probabilità, potrà sfuggire il polso della situazione, e ciò accadrà tutte le volte in cui i soggetti incaricati non opereranno tempestivamente, ovvero non metteranno il giudice in condizioni di poter adottare i correttivi necessari.

Con il che, si perde molta di quella gestione oculata del fascicolo che il legislatore ha inteso affidare al giudice auspicabilmente specializzato.

Possibili rimedi

Alla luce dei limiti del sistema che abbiamo solo tratteggiato nelle righe che precedono, assume un rilievo per certi aspetti decisivo il diverso compito che può essere affidato alla nuova figura dell’esperto introdotta con l’art. 473-bis.26 c.p.c.

Si tratta di un professionista, in genere di formazione psicoforense, dotato di tutte quelle competenze qualificate richieste per il tipo di intervento richiesto, designato ad operare nei contesti di crisi delle relazioni familiari, anche quelle più esacerbate.

A dispetto del tenore letterale della norma, che richiede l’istanza congiunta delle parti, presupposto arduo da rinvenire, si ritiene che proprio in virtù degli ampi poteri ufficiosi d’impulso che fanno capo al giudice, possa essere da costui nominato anche a prescindere dalla richiesta congiunta delle parti, tutte le volte in cui la preminente esigenza di tutela della prole ne renda ineludibile l’intervento.

Egli in sostanza potrà essere chiamato a svolgere funzioni di ausiliario del giudice, di longa manus dell’autorità giudiziaria, figura chiave e di raccordo fra tutti i soggetti, parti, avvocati, giudice, servizi territoriali, per sopperire a quello che va inteso come l’anello debole del sistema, quello relativo alla ripresa o risanamento delle relazioni genitori-figli, quando compromesse.

Le numerose norme del Titolo IV-bis che affidano al giudice ampi poteri ufficiosi d’intervento legittimano siffatta lettura: si pensi alla norma di apertura dell’art. 473-bis.2 c.p.c., dedicata ai poteri del giudice, il quale, a tutela dei minori, può adottare i provvedimenti opportuni e disporre mezzi di prova, anche al di là delle domande di parte.

Lo stesso dicasi con riguardo alla nuova disposizione di cui all’art. 473-bis.6 c.p.c., che pur nella sintetica enunciazione, si pone per la prima volta nell’ottica di intervenire nei casi, invero numerosi nella prassi, di rifiuto innaturale di un figlio verso un genitore.

La norma è volutamente appena tratteggiata, ma certamente, al pari del più ampio corredo di norme dedicato al fenomeno della violenza, affida al giudice i più ampi poteri e, fra questi, riteniamo debba ricomprendersi la possibilità di nomina di un esperto, ex art. 473-bis.26 c.p.c., anche prescindendo dal consenso delle parti, che diversamente, in fattispecie come queste, non si avrebbe mai.

L’esperto potrà intervenire efficacemente, perché si porrà come interlocutore necessario e privilegiato nel dialogo fra parti e giudice, e ancor più perché costituirà presidio univoco ai fini della tutela delle relazioni genitori-figli, ciò che rappresenta poi la traduzione più efficace dei cd. best interests of the child.

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