Confisca allargata o confisca diretta?
01 Luglio 2025
Premessa Com'è noto, il nostro codice penale, all'art. 240-bis c.p., prevede la confisca “allargata” o “per sproporzione”, i cui presupposti sono la qualità di condannato per determinati “reati-spia”, la sproporzione del patrimonio di cui il condannato dispone, anche indirettamente, rispetto al suo reddito o alla sua attività economica e la presunzione (relativa) che il patrimonio stesso derivi da altre attività criminose non accertate. In presenza di queste condizioni, il nostro legislatore presume, dunque, che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone. La vicenda La Corte di appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, aveva accolto la richiesta formulata dalle parti ex art. 599-bis c.p.p. e rideterminata la pena detentiva inflitta alla ricorrente, ritenuta colpevole di tre reati di usura continuata in concorso, in tre anni di reclusione, sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità presso una A.S.L. per la durata corrispondente. La Corte revocava la pena accessoria e la confisca di alcuni beni (valigetta metallica e beauty contenenti gioielli e monili), dei quali disponeva la restituzione all'imputata, confermando nel resto la sentenza di primo grado. Contro la sentenza d'appello l'imputata aveva proposto ricorso in cassazione, chiedendo l'annullamento della sentenza, limitatamente al punto relativo alla conferma della confisca della somma di € 99.970,00. La sentenza Le Sezioni Unite della Corte avevano già affermato che «se la sentenza dispone una misura di sicurezza, sulla quale non è intervenuto accordo tra le parti, la statuizione relativa – che richiede accertamenti circa i previsti presupposti giustificativi e una pertinente motivazione che non ripete quella tipica della sentenza di "patteggiamento", ed è inappellabile, alla luce del disposto del, tuttora vigente, art. 448, comma 2, c.p.p. – è impugnabile, per coerenza dello sviluppo del ragionamento giuridico non disgiunto da esigenze di tenuta del sistema secondo postulati di unitarietà e completezza, con ricorso per cassazione anche per vizio della motivazione, ex art. 606, comma 1, c.p.p.». Pertanto, anche a seguito della introduzione della previsione di cui all'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., «è ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione contro la sentenza di applicazione di pena con riferimento alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, che non abbiano formato oggetto dell'accordo delle parti» (Cass. pen., sez. un., 26 settembre 2019, n. 21368, Savin, Rv. 279348 – 02). La sentenza in commento applica il principio anche in relazione al concordato in appello ex art. 599-bis c.p.p. qualora – come nel caso di specie – l'accordo fra le parti non abbia avuto quale oggetto anche la confisca. La Corte d'appello aveva preliminarmente osservato che, «seppur non esplicitamente chiarito attraverso l'indicazione delle norme relative, i beni sono stati confiscati in applicazione della norma contenuta nell'art. 240-bis c.p.». Si tratta, dunque, di una confisca “allargata” o “per sproporzione”, prevista per un catalogo di reati indicati nel suddetto articolo, fra i quali l'usura: «è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica». Questa forma di confisca è giustificata dalla particolare gravità dei “delitti spia” ed è caratterizzata da un forte affievolimento degli oneri probatori gravanti sull'accusa in quanto fondata su tre elementi: la qualità di condannato per determinati reati; la sproporzione del patrimonio di cui il condannato dispone, anche indirettamente, rispetto al suo reddito o alla sua attività economica; la presunzione che il patrimonio stesso derivi da altre attività criminose non accertate. In presenza di determinate condizioni, si presume, dunque, che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone (Cass. pen., sez. un., 17 dicembre 2003, n. 920, dep. 2004, Montella, Rv. 226491 – 01). Anche di recente le Sezioni Unite della Suprema Corte, in conformità alle pronunce sul tema della Corte costituzionale (per tutte cfr. C. cost., n. 33/2018), hanno ribadito che detta presunzione relativa non realizza una reale inversione dell'onere della prova, ma si limita a porre a carico del soggetto destinatario del provvedimento di confisca o di sequestro un onere di allegazione di fatti e circostanze di cui il giudice valuterà la specificità e la rilevanza e verificherà la sussistenza (Cass. pen., sez. un., 26 ottobre 2023, n. 8052, dep. 2024, Rizzi, Rv. 285852 – 01). La motivazione della sentenza impugnata è incentrata soprattutto sulla ritenuta inattendibilità della ipotesi di una propensione al “risparmio autogestito” («mettere cioè il denaro sotto la mattonella»), avuto anche riguardo alle modalità di detenzione delle somme in contanti custodite in vari luoghi nell'abitazione della ricorrente ed ivi sequestrate, sì da far ritenere che le stesse fossero «pronte per l'uso, ossia destinate al prestito, ovvero derivanti da restituzioni di prestiti effettuati». Secondo la Corte di cassazione, questa valutazione, però, evoca le caratteristiche di una confisca diretta del profitto dei reati (pacificamente esclusa) e non già quelle di una confisca “allargata”, che, come si è detto, presuppone la sproporzione del patrimonio di cui il condannato dispone, anche indirettamente, rispetto al suo reddito o alla sua attività economica; il riferimento alla sproporzione di dette somme «rispetto al denaro movimentato e, quindi, tracciabile» non è pertinente e anche la motivazione sulla restituzione dei gioielli (non è stato neppure dimostrato «che le vittime di usura consegnassero in pegno oggetti di valore») conferma il non esatto inquadramento della natura dell'istituto della confisca ex art. 240-bis c.p. Inoltre, richiamando l'epoca di commissione dei reati di usura (anni 2017-2020), la Corte di appello aveva disatteso le valutazioni del perito, che aveva considerato i redditi percepiti e le spese sostenute dal nucleo familiare della ricorrente anche per gli anni dal 2014 al 2017. La sentenza valuta, sul punto, priva di logicità la motivazione della Corte d'appello: «si dovrebbe ritenere, per aderire a tale ricostruzione, che la coppia madre/figlia preferisse conservare in casa i guadagni ottenuti, piuttosto che investirli, ma ciò̀ appare in decisa antitesi con le movimentazioni bancarie in atti»). La Corte di cassazione ritiene inoltre che la sentenza impugnata obliteri le conclusioni della perizia, pure richiamata sul punto, nella parte in cui essa ha escluso che vi fossero stati ulteriori versamenti di denaro sui conti correnti rispetto a quelli riferibili agli assegni ricevuti per la cessione di un immobile e a titolo di risarcimento del danno per la morte del fratello. La sentenza in commento ricorda pure che la Corte di cassazione e la Corte costituzionale hanno perimetrato l'ambito di operatività della presunzione di illecita provenienza dei beni secondo il criterio di “ragionevolezza temporale”, ritenendo necessario un collegamento cronologico tra l'attività delittuosa per cui è stata emessa la sentenza di condanna e il momento di ingresso nel patrimonio del singolo bene di valore sproporzionato rispetto al reddito o all'attività economica (Cass. pen., sez. un., 25 25 febbraio 2021, n. 27421, Crostella, non mass. sul punto; Cass. pen., sez. un., 17 dicembre 2003, n. 920, dep. 2004, Montella, cit.; C. cost., n. 24/2019). Parallelamente detto criterio deve essere applicato avuto riguardo alla distanza fra la percezione dei redditi leciti da parte del soggetto destinatario della confisca e l'epoca di commissione dei reati (nel caso di specie tre anni), che costituiscono, secondo la sentenza impugnata, un periodo “ragionevole”. Infine, anche gli “specchietti” relativi alle varie annualità risultano di difficile lettura e non consentono di comprendere se la Corte d'appello abbia correttamente considerato la natura della confisca allargata, tanto più che, ancora una volta, la sentenza ha collegato la detenzione della somma in contanti all'attività usuraria della ricorrente e della madre, «per porre in essere la quale era necessario disporre di una provvista non tracciabile, pronta all'uso e di immediata prestazione». La Corte di cassazione ha pertanto annullato la sentenza impugnata, nella parte in cui ha confermato la confisca del denaro (l'unica oggetto del ricorso), con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di appello. Osservazioni La sentenza merita plauso perché distingue nettamente le due forme di confisca (diretta o “allargata”) e cassa la sentenza d'appello che aveva utilizzato i criteri molto più elastici della seconda nei confronti di somme di denaro che sembrano invece profitto del reato e quindi oggetto della più rigorosa confisca diretta. Infatti, l'art. 240-bis c.p., che disciplina la confisca “allargata” è, evidentemente, una disposizione eccezionale perché, anziché porre in capo all'accusa l'onere della prova che i beni derivano effettivamente dal reato, presume che derivino da altri “reati spia” per i quali l'imputato è stato in passato condannato. Ma le disposizioni eccezionali non possono trovare applicazione analogica o estensiva e tanto meno quando si tratta di disposizione incriminatrice o comunque che limita i diritti della persona, come nel caso di specie il diritto di proprietà. |