Impresa familiare e convivente di fatto dopo la pronuncia della Consulta
06 Giugno 2025
Massima Alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 148 del 2024 occorre procedere ad una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 230-bis c.c., anche in relazione all'art. 230-ter c.c., ponendo in rilievo la circostanza che la Corte territoriale, sul presupposto dell'inapplicabilità ratione temporis al caso di specie dell'art. 230-ter c.c. e della impossibilità di un'applicazione estensiva dell'art. 230-bis c.c. (nel senso di estendere al convivente di fatto la medesima tutela prevista per il familiare), ha del tutto pretermesso (verosimilmente proprio in ragione del condizionamento derivante dalla ratio decidendi costituita dall'impossibilità di qualificare la convivente come familiare ai sensi dell'art. 230-bis c.c.) ogni accertamento in concreto circa l'effettività e la continuatività dell'apporto lavorativo della convivente nell'impresa familiare, apporto che si assume determinativo dell'accrescimento della produttività dell'impresa. Il caso La questione sorge dalla domanda proposta dalla convivente del de cuius nei confronti dei figli di quest'ultimo, innanzi al Tribunale ordinario, in funzione di giudice del lavoro, avente ad oggetto l'accertamento dell'esistenza di una impresa familiare e di condanna alla liquidazione della quota spettantele in qualità di partecipante all'impresa. Deduceva la ricorrente di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo nell'azienda del convivente dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012. Il Tribunale adito rigettava la domanda, rilevando che il riconoscimento della quota di partecipazione all'impresa familiare ex art. 230-bis c.c. presuppone la sussistenza di un rapporto di coniugio o di parentela o affinità a termini dell'art. 230-bis c.c., non rinvenibile nel caso di specie. La Corte d'appello confermava il rigetto sull'identico presupposto, ritenendo che la norma non trovasse applicazione nei confronti del “convivente di fatto”, non potendo quest'ultimo essere considerato “familiare” ai sensi del comma 3 dell'art. 230-bis c.c. ed escludendo, altresì, l'applicabilità dell'art. 230-ter c.c., in quanto il rapporto di convivenza era cessato prima dell'entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) che, con l'aggiunta del suddetto articolo, ha in parte esteso ai conviventi la disciplina dell'impresa familiare. Evidenziava inoltre che, nel caso di specie, emergevano plurime circostanze ostative alla ipotizzata partecipazione all'impresa familiare: - l'essere l'imprenditore rimasto fino alla morte formalmente legato in matrimonio ad altro soggetto; - l'essere stato stipulato, sia pure per un periodo più limitato rispetto a quello dedotto dalla ricorrente (dal 2004 al 2012), un contratto di lavoro subordinato tra la convivente e l'azienda, condizione escludente l'applicazione dell'art. 230-bis c.c., che espressamente prevede una residualità della disciplina dell'impresa familiare (comma 1: "Salvo che non sia configurabile un diverso rapporto..."); - l'essere risultata la convivente regolarmente assunta presso la Regione Lombardia. Proposto ricorso in Cassazione, le Sezioni Unite civili sollevavano questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2,3, 4, 35 e 36 della Costituzione, all'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) ed all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), dell'art. 230-bis, commi 1 e 3, c.c., nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, e, «in via derivata», dell'art. 230-ter c.c., che «applica al convivente di fatto, che presti stabilmente la propria opera nell'impresa dell'altro convivente, una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare». La Corte costituzionale, con sentenza n. 148 del 2 luglio 2024, depositata in data 25 luglio 2024, pubblicata in G.U. 31 luglio 2024 n. 31, dichiarava l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, comma 3, c.c., nella parte in cui non prevede come familiare anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto, ciò per la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, comma 1, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.), nonché per violazione dell'art. 3 Cost.; dichiarava, altresì, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11.3.1953 n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-ter codice civile. La convivente presentava, dunque, ricorso in riassunzione innanzi alle Sezioni Unite della Cassazione lamentando da parte della Corte di Appello l'omissione di ogni accertamento in concreto circa l'effettività e la continuatività dell'apporto lavorativo dalla stessa prestato nell'impresa familiare, apporto che si assume determinativo dell'accrescimento della produttività dell'impresa, deducendo, altresì, l'omessa considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza, oltre che le aperture della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzionale verso il convivente more uxorio; in tal senso, secondo la ricorrente, la disciplina dell'impresa familiare dovrebbe trovare applicazione anche in mancanza di una norma rivolta espressamente al convivente, in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 230-bis c.c. La Corte di Cassazione, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 148 del 2024, accoglie il ricorso, rinviando alla Corte d'Appello che, in diversa composizione, dovrà procedere ad un nuovo esame della controversia tenendo conto della pronuncia del Giudice delle leggi interpretativa additiva dell'art. 230-bis, comma 3, c.c. ed in via conseguenziale demolitoria dell'art. 230-ter c.c. La questione Le censure proposte dalla convivente dell'imprenditore ruotano intorno alla lettura costituzionalmente orientata dell'art. 230-bis c.c., anche in relazione all'art. 230-ter c.c., e pongono in rilievo la circostanza che la Corte territoriale, sul presupposto dell'inapplicabilità ratione temporis al caso di specie dell'art. 230-ter c.c. e dell'impossibilità di un'applicazione estensiva dell'art. 230-bis c.c. (nel senso di estendere al convivente di fatto la medesima tutela prevista per il familiare), ha del tutto pretermesso (verosimilmente proprio in ragione del condizionamento derivante dalla ratio decidendi costituita dall'impossibilità di qualificare la convivente come familiare ai sensi dell'art. 230-bis c.c.) ogni accertamento in concreto circa l'effettività e la continuatività dell'apporto lavorativo della predetta nell'impresa familiare, apporto che si assume determinativo dell'accrescimento della produttività dell'impresa. La Corte di Cassazione ritiene che l'intera ratio decidendi vada rivista alla luce del pronunciamento della Corte costituzionale, procedendo, altresì, all'esame di quegli elementi ritenuti non incidenti dalla Corte territoriale, nella specie: l'esistenza di un formale rapporto di coniugio del titolare dell'impresa; l'aver avuto, la convivente, un rapporto di lavoro subordinato con l'impresa, ancorché per un periodo limitato, nonché un rapporto di lavoro con la Regione Lombardia. Le soluzioni giuridiche Con la sentenza 25 luglio 2024, n. 148, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, comma 3, c.c., in riferimento agli artt. 2,3,4,35 e 36 Cost., nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto» (si veda, per approfondimenti: Laudisio, Anche il convivente di fatto fa parte dell’impresa familiare, in questo portale). La dichiarazione d'illegittimità costituzionale viene estesa in via consequenziale all'art. 230 ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all'accoglimento della questione sollevata in riferimento all'art. 230-bis c.c. La pronuncia d'illegittimità costituzionale si fonda sul presupposto giuridico dell'impossibilità di procedere ad un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, in quanto dalla legge n. 76 del 2016 si desume l'applicabilità dell'art. 230-bis c.c. alle unioni civili, mentre, con l'introduzione della nuova disposizione dell'art. 230-ter c.c. – che prevede che al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato – si desume a contrario la non applicabilità dell'art. 230-bis c.c. alle convivenze more uxorio. La Corte Costituzionale individua il fulcro delle sollevate questioni di legittimità costituzionale nella portata della tutela del convivente more uxorio ai sensi dell'art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, qual è, appunto, la convivenza di fatto, la quale esige una tutela che si affianchi a quella che l'art. 29, comma 1, Cost. riserva alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, è riconducibile all'art. 29 Cost., mentre le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost., all'interno delle quali l'individuo afferma e sviluppa la propria personalità. Per tutto quanto detto, risulta la violazione, da parte dell'art. 230-bis c.c., del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, comma 1, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.), e dell'art. 3 Cost., non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.). Osservazioni La sentenza della Corte Costituzione del 25 luglio 2024, n. 148, cui adeguare la ratio decidendi della Corte d'Appello, chiamata dalle Sezioni Unite ad un nuovo esame nel merito della controversia, tenendo debito conto la pronuncia interpretativa additiva dell'art. 230-bis, comma 3, c.c. ed in via conseguenziale demolitoria dell'art. 230-ter c.c., costituisce occasione per ripercorrere alcune importanti questioni in tema d'impresa familiare. L'istituto è disciplinato dall'art. 230-bis c.c., ai sensi del quale: “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa […] Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo”. Pur essendo inserito nel Capo dedicato ai rapporti patrimoniali tra coniugi, l'art. 230-bis c.c. non disciplina la sola attività lavorativa del coniuge, ma anche quella dei parenti entro il terzo grado e degli affini entro il secondo, e, inoltre, non avendo la riforma della filiazione (d.lgs. n. 154/2013) modificato il testo della norma, in dottrina si ritiene che l'impresa familiare possa essere costituita anche a prescindere dalla presenza del coniuge, con i soli parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, che fossero tali in virtù di rapporti di filiazione naturale. L'introduzione dell'art. 230-ter c.c., ad opera della legge n. 76 del 2016, ha riconosciuto una tutela nuova all'impresa familiare cui partecipi un convivente di fatto, sul ritenuto presupposto, implicito ma inequivocabile, che prima non fosse prevista e che, quindi, l'art. 230-bis c.c. non potesse applicarsi estensivamente al convivente. Il comma 36 dell'art. 1 della suddetta legge definisce conviventi di fatto «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da un'unione civile». Poiché la convivenza di fatto implica un “legame affettivo di coppia”, non vi rientra la convivenza, ancorché stabile, meramente amicale, di sostegno o di compagnia. Il comma 37 aggiunge poi che, ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, ai fini dell'accertamento della stabile convivenza, occorre fare riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'art. 4 e alla lettera b) del comma 1 dell'art. 13 del d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), che crea una presunzione di stabilità del vincolo affettivo di coppia e agevola, sul piano probatorio, il riconoscimento dei diritti in favore dei conviventi di fatto. Il comma 13 dell'articolo unico della legge – che prevede il regime patrimoniale dell'unione civile tra persone dello stesso sesso – prescrive espressamente che si applichino le disposizioni di cui alle Sezioni II, III, IV, V e VI del Capo VI del Titolo VI del libro primo del codice civile. Da ciò si desume l'applicabilità dell'art. 230-bis c.c. alle unioni civili, con conseguente ampliamento del catalogo del suo terzo comma nella parte in cui definisce come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Il comma 46 dello stesso articolo unico introduce l'art. 230-ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente una tutela limitata a taluni, circoscritti, aspetti, quali «una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento». L'espresso riferimento al lavoro prestato «all'interno dell'impresa dell'altro convivente» lascia fuori dal perimetro delle tutele il lavoro «nella famiglia»; al convivente non spetta il diritto al mantenimento ma solo una partecipazione basata sui risultati economici dell'impresa commisurata sul «lavoro prestato» e poiché gli utili e gli incrementi potrebbero anche mancare in caso di risultati negativi dell'azienda, la sua tutela economica resta meramente eventuale. Manca la previsione di un diritto di prelazione per il caso di divisione ereditaria o cessione dell'impresa familiare e non viene riconosciuto alcun diritto partecipativo, con la conseguenza che il convivente, pur collaborando unitamente ad altri familiari dell'imprenditore, deve attenersi alle decisioni gestionali e sugli indirizzi produttivi adottate dagli altri componenti, anche in ordine alla eventuale partecipazione agli utili a cui avrebbe diritto; viene, invece, confermato il carattere residuale della tutela, con la precisazione che il diritto di partecipazione non spetta nei soli casi di esistenza di un rapporto di società o di lavoro subordinato. Da quest'ultima disposizione si è desunta a contrario la non applicabilità della norma dell'art. 230-bis c.c. alle convivenze more uxorio, con preclusione di ogni interpretazione costituzionalmente conforme e adeguatrice della stessa. Con la sentenza 25 luglio 2024, n. 148 la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230 bis, co. 3, c.c., in riferimento agli artt. 2,3,4,35 e 36 Cost., nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto». L'ampliamento della tutela apprestata, per effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale dall'art. 230-bis c.c. al convivente di fatto, fa sì che la previsione dell'art. 230 ter c.c. avrebbe oggi il significato, non più di attribuire a quest'ultimo una garanzia prima non prevista, come nell'intendimento del legislatore del 2016, bensì quello di restringere – ingiustificatamente e in modo discriminatorio (in violazione dell'art. 3, comma 1, Cost.) – la più ampia tutela riconosciuta dalla norma precedente, violando, altresì, il diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e il diritto alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.). Pertanto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale viene estesa in via consequenziale all'art. 230 ter c.c., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all'accoglimento della questione sollevata in riferimento all'art. 230-bis c.c. Posta l'applicabilità dell'art. 230-bis c.c. al convivente di fatto, occorre verificare, caso per caso, in concreto, la ricorrenza dei requisiti di configurabilità di un'impresa familiare. A livello civilistico, l'impresa familiare costituisce un istituto del diritto di famiglia, disciplinato dal codice civile (art. 230-bis) nell'ambito del regime patrimoniale della famiglia, nato con riferimento alla piccola impresa e teso a valorizzare l'apporto di ciascun coniuge all'impresa familiare. Trattasi di un istituto avente natura autonoma, di carattere speciale ma non eccezionale, e residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile tra imprenditore e suoi collaboratori (Cass. n. 11533/2020), ossia giuridicamente riscontrabile solo nel caso in cui l'apporto lavorativo del congiunto all'impresa non rientri in altri archetipi lavorativi, quali il rapporto di lavoro subordinato ovvero di tipo societario, restando l'impresa familiare incompatibile con la disciplina delle società (Cass. S.U. n. 23676/2014). Titolo dei diritti del collaboratore è il lavoro prestato sulla base del rapporto familiare; ogni diverso titolo, di scambio od associativo (contratto di lavoro, di società o di associazione) esclude, come afferma il proemio della norma, la fattispecie in esame. In ragione degli interessi tutelati sottesi dalla norma, sul piano probatorio si richiede la prova dell'esistenza di un patto espresso fra le parti per inquadrare la fattispecie, in via di eccezione, in un modello giuridico alternativo a quello dell'impresa familiare, e, in ipotesi, per ricondurre l'attività familiare nell'alveo del contratto di lavoro subordinato, essendo insufficienti sia la mancata partecipazione alle decisioni sull'impresa e alla divisione degli utili, tutt'al più configurabili come mere violazioni dell'art. 230-bis, sia la prestazione dell'attività con orari e ruoli prestabiliti, atteso che l'individualità dell'impresa rende applicabile l'art. 2086 c.c. (Cass. n. 1211/1989). La Corte d'Appello dovrà pertanto valutare, in sede di rimessione del giudizio da parte delle Sezioni Unite, se la ricorrenza, in capo alla convivente, di un rapporto di lavoro subordinato con l'azienda, ancorché per un periodo limitato, appaia ostativo alla configurabilità dell'impresa familiare, tenendo conto del rilievo della ricorrente con riguardo alla simulazione dello stesso ai soli fini assicurativi e, pertanto, di una sua lettura nella prospettiva delle condizioni familiari in cui si è svolto. L'impresa familiare presuppone, quindi, per la sua configurabilità: a) l'esistenza di una impresa individuale; b) la prestazione lavorativa svolta nell'interesse dell'impresa medesima dal familiare, con carattere di continuità, ossia con costanza e regolarità, ma non necessariamente esclusiva; c) in alternativa, la prestazione di lavoro nella famiglia, ma senza che possa assumere rilevanza la mera attività domestica, essendo sempre necessario un collegamento causale e funzionale con l'attività di impresa. Relativamente al primo requisito, nell'impresa familiare occorre distingue un profilo esterno, concernente i rapporti dell'imprenditore con i terzi, e un profilo interno di collaborazione tra l'imprenditore e i suoi familiari. Vale a dire che nei rapporti esterni l'impresa familiare è personificata dall'imprenditore individuale, che agisce in modo autonomo e discrezionale, anche in caso di contrasto o di assenza di consenso dei collaboratori familiari, il cui assenso presenta valore meramente interno all'impresa familiare stessa. Dopo un iniziale contrasto, la giurisprudenza di legittimità si è consolidata nel configurare l'impresa familiare solo qualora il titolare dell'impresa sia un imprenditore individuale, escludendo quindi l'applicazione dell'art. 230-bis c.c. a vantaggio del familiare che presti la propria opera nell'ambito dell'impresa gestita in forma societaria (Cass. S.U. n. 23676/2014). L'assunto è confermato dalla Corte Costituzionale, per la quale, secondo il diritto vivente, l'impresa familiare non costituisce una modalità di gestione collettiva dell'impresa, bensì una forma di collaborazione all'interno di essa e la norma di cui all'art. 230-bis c.c. disciplina unicamente il rapporto che si instaura tra soggetti – il familiare (o i familiari) e l'imprenditore – per effetto dello svolgimento della prestazione di lavoro, senza con ciò interferire sull'imputazione dell'attività d'impresa, di cui resta titolare l'imprenditore che è l'unico soggetto ad agire sul piano dei rapporti esterni, assumendo il rischio inerente all'esercizio dell'impresa. Relativamente alla sua costituzione, per la teoria contrattualistica la fonte del rapporto dell'impresa familiare dovrebbe essere sempre un contratto, concludentesi anche in forma tacita e non solo espressa. Prevale in dottrina la teoria del fatto giuridico, secondo cui l'impresa familiare nascerebbe dal fatto giuridico rilevante della collaborazione dei familiari all'impresa individuale. L'accoglimento di una tesi piuttosto dell'altra presenta rilevanti ripercussioni di ordine pratico relative alla redazione dell'atto costitutivo dell'impresa, in quanto, affermare che essa nasca dall'esercizio di fatto di una collaborazione familiare comporta l'adesione alla natura dichiarativa dell'atto con cui le parti, dinanzi ad un pubblico ufficiale, confermano la sussistenza tra loro di un'impresa familiare già di fatto costituita. Recente giurisprudenza di merito (Tribunale di Parma, sez. I, 30 maggio 2022 n. 205) ha avvalorato tale impostazione, riconoscendo che l'impresa familiare non nasca da un contratto, ma si costituisca in base al fatto giuridico della collaborazione dei familiari all'impresa: “tale applicazione origina da circostanze di fatto, senza necessità di dichiarazione di tipo negoziale al riguardo” (Cass. n. 2060/1995). Ne consegue che la formalizzazione dell'impresa familiare rappresenta un mero atto dichiarativo dell'esistenza di un'impresa familiare già di fatto costituitasi per effetto della collaborazione instauratasi tra l'imprenditore e suoi familiari. In tal senso, per configurarsi impresa familiare, la prestazione lavorativa deve essere svolta nell'interesse dell'impresa medesima con carattere di continuità, ossia con costanza e regolarità, ma non necessariamente in modo esclusivo. Il secondo requisito dell'impresa familiare è, infatti, costituito dalla prestazione dell'attività lavorativa (di qualsivoglia natura) di collaborazione, in via continuativa, cioè - secondo l'interpretazione dominante - con i caratteri della costanza e della regolarità, ancorché non a tempo pieno e neppure in via esclusiva o prevalente. Sul piano probatorio il familiare deve provare tanto lo svolgimento dell'attività di lavoro in via continuativa, quanto l'effettivo incremento apportato, in ragione di detta attività, all'impresa (Cass. S.U. n. 5603/2002), con la precisazione, peraltro, che la continuità del rapporto all'impresa familiare non è da intendersi in sinonimia con la continuità della presenza in azienda, dal momento che necessaria e sufficiente è la sola regolarità nella prestazione dell'apporto lavorativo (Cass. 13849/2002). In tal senso si sono pronunciate anche le Sezioni Unite, per le quali la continuità dell'apporto, richiesto per la configurabilità della partecipazione all'impresa familiare, non esige la continuità della presenza in azienda; in linea di principio, infatti, la continuità dell'apporto appare del tutto compatibile con altre occupazioni professionali e non, purché in concreto le modalità di svolgimento delle varie attività concorrenti risultino tra loro conciliabili, di tal che la contemporanea dedizione ad interessi di natura diversa non incide in maniera aprioristica nemmeno sulla misura dell'apporto qualitativo e quantitativo del singolo partecipante all'impresa familiare (Cass. S.U. n. 1900/2024]. Posta la non necessaria esclusività della prestazione, la Corte d'Appello dovrà pertanto valutare, in sede di merito, se la sussistenza, in capo alla convivente, di un rapporto di lavoro con la Regione Lombardia (iniziato nel 1989 e proseguito con contratto di lavoro al 100% fino al 31.12.2020, e poi, a partire dal 01.01.2012, con contratto part-time verticale al 50%) abbia influito sulla sua partecipazione all'azienda, profusa sia nell'intrattenimento di rapporti esterni con i vari enti, clienti, fornitori, professionisti e nell'organizzazione di eventi promozionali e nella creazione e sviluppo dell'azienda sotto il profilo della costituzione della rete commerciale, sia nella diretta attività nei campi (nei periodi di raccolta delle uve e delle olive) insieme con i braccianti che in precedenza aveva assunto e selezionato. Valutata la ricorrenza delle suddette condizioni, in forza della previsione di cui all'art. 230 bis c.c., come costituzionalmente rimodulato, il convivente che ha prestato la propria attività di lavoro, in modo continuativo nell'impresa familiare, cioè a favore di un imprenditore a lui legato da una convivenza stabile e duratura, godrà di una complessiva posizione partecipativa che consta sia di diritti patrimoniali che di diritti amministrativo-gestori. Sotto il profilo economico, egli avrà innanzitutto diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e, in caso di buon andamento dell'attività d'impresa, ad una quota di utili e di incrementi, anche in ordine all'avviamento, proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, partecipando, sempre in detta proporzione, ai beni acquistati con gli utili. Al momento della cessazione dell'impresa familiare, il partecipante maturerà un diritto di credito verso l'imprenditore (o i suoi eredi), non solo per gli utili non ancora distribuiti, ma anche per i beni dell'impresa acquistati e per gli incrementi aziendali, compreso l'avviamento. Conclusioni La reductio ad legitimitatem operata inserendo il convivente dell'imprenditore nell'elenco dei soggetti legittimati a partecipare all'impresa familiare di cui al terzo comma dell'art. 230-bis c.c. e, quindi, prevedendo come impresa familiare quella cui collabora anche «il convivente di fatto», comporta il riconoscimento in capo allo stesso delle medesime prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all'imprenditore. Posta l'applicabilità dell'art. 230-bis c.c. al convivente di fatto, occorrerà verificare, caso per caso, in concreto, la ricorrenza dei requisiti di configurabilità di un'impresa familiare, nella specie: a) l'esistenza di una impresa individuale; b) la prestazione lavorativa svolta nell'interesse dell'impresa medesima dal familiare, con carattere di continuità, ossia con costanza e regolarità, ma non necessariamente esclusiva; c) in alternativa, la prestazione di lavoro nella famiglia, ma senza che possa assumere rilevanza la mera attività domestica, essendo sempre necessario un collegamento causale e funzionale con l'attività di impresa. M. Paladini, L'impresa familiare, in Trattato di diritto di famiglia diretto da G. Bonilini, Milano, 2022. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991. G. Gabrielli voce “Regime patrimoniale della famiglia”, in Dig. Disc. Priv., Sez. civ., XVI, Torino, 1997. G.A.M. Trimarchi, Il regime patrimoniale della famiglia e l'impresa individuale e collettiva, in Notariato, 2006. F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I. I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da Cicu – Messineo, Milano, 1979. G. Tamburrino, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia, Torino, 1978. E. Simonetto, Impresa familiare: dubbi interpretative e lacune normative, in. Dir. soc. 1976. C.M. Bianca, Regimi patrimoniali della famiglia e attività d'impresa, in AA.VV., L'impresa nel nuovo diritto di famiglia, Napoli, 1977. |