Faglie critiche in tema di giustizia riparativa

Fabio Fiorentin
30 Maggio 2025

L'avvento della disciplina organica della giustizia riparativa (d'ora in poi anche GR) ha provocato nell'ordinamento vigente numerose criticità sotto il profilo sia sistematico che applicativo. Sebbene la giurisprudenza abbia iniziato a fornire alcune indicazioni, restano sul tappeto importanti questioni per le quali saranno necessarie ulteriori riflessioni e approfondimenti.

Lo scritto che segue intende fornire – senza alcuna pretesa di esaustività – un primo resoconto sullo “stato dell'arte”.

Il problema del “riconoscimento dei fatti” essenziali della vicenda

Secondo la Premessa della Raccomandazione CM/Rec(2018)8 del Consiglio d'Europa agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale, la finalità della GR è quella di «incoraggiare il senso di responsabilità degli autori dell'illecito e offrire loro l'opportunità di riconoscere i propri torti così da favorire il loro ravvedimento e consentire la riparazione e la comprensione reciproca e incoraggiare la rinuncia a delinquere». Principi chiave della giustizia riparativa sono, tra gli altri: «accento su riparazione, reintegrazione e raggiungimento di una comprensione reciproca; e assenza il dominio» (punto 14 della Raccomandazione).

Per le fonti europee, la GR implica, senza possibilità di equivoci - il “riconoscimento dei fatti essenziali della vicenda”. La direttiva 2012/29/UE adottata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio recante “Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato” condiziona l'accesso ai servizi di giustizia riparativa al «riconoscimento dei fatti essenziali da parte dell'autore del reato», ma aggiunge che ove si tratti di «persona indagata o imputata» sia fatta «salva la presunzione d'innocenza».

Non ci sono equivoci possibili: le fonti sovranazionali sono concordi nel richiedere quale vero e proprio presupposto per l'accesso alla giustizia riparativa il riconoscimento dei fatti da parte dell'imputato. In questo senso è chiarissimo l'art. 12 comma 1, lett. c), della già evocata Direttiva 2012/29/UE, che prevede espressamente tra le condizioni di accesso alla restorative justice che l'autore del reato abbia riconosciuto i fatti essenziali del caso. Dello stesso segno è anche la Raccomandazione del 2018, che richiede che le parti riconoscano i fatti principali per avviare un programma di giustizia riparativa. La c.d. “Direttiva Vittime”, come ricorda attenta dottrina, è parte del nostro ordinamento giuridico, in ragione del varco ex art. 117 Cost., che la rende ius cogens

A fronte di tale quadro giuridico-normativo, la scelta del legislatore italiano è – in contro tendenza con quella operata da altri Stati europei – diversa: la disciplina del d.lgs n. 150/2022 pone il riconoscimento dei fatti a valle del momento giudiziale, escludendone la rilevanza ai fini dell'autorizzazione di cui all'art. 129-bis c.p.p. e collocandola tra le condizioni di fattibilità verificate dal mediatore. Una tale opzione sembra porsi in apparente contrasto con le indicazioni europee qualora si guardi al momento processuale, ma appare perfettamente adeguata alla fase dell'esecuzione, ove si tratta di recuperare una persona che è già stata irrevocabilmente giudicata colpevole del reato ascrittole (art. 27 Reg. esec.). 

In questa prospettiva, dunque, il modello di giustizia riparativa è radicalmente alternativo a quello nel quale le vittime “belligeranti” che chiedono “giustizia” intervengono attivamente nella fase del processo o in quella esecutiva per caldeggiare pene esemplari, che comprensibilmente inquieta i penalisti italiani, ed è invece pienamente consonante con la visione del mondo sottesa all'art. 27 Cost., ed anzi ne costituisce – a ben guardare – il pieno sviluppo.

Il carattere “universalistico” della giustizia riparativa

Nell'esperienza pratica si potrebbero riscontrare delle criticità in rapporto alla caratteristica di universalità della GR.

Già nell'ambito degli Stati Generali dell'esecuzione penale, istituiti dal ministro della giustizia nel 2015, il Tavolo 13 in tema di “Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato” aveva elaborato una serie di proposte per allineare l'ordinamento penale italiano alle previsioni della direttiva 2012/29/UE e, in particolare, per promuovere “l'accesso alla giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento”. Quest'ultima indicazione è presente anche nella Raccomandazione CM/Rec(2018)8 (paragrafi 6 e 19).

Il principio dell'accesso alla giustizia riparativa “senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità” è stato quindi codificato dalla legge-delega (art. 1 comma 18, lett. c), l. 27 settembre 2021, n. 134).

La previsione, sicuramente condivisibile sul piano teorico (l'obiettivo è quello di offrire la possibilità di accedere a percorsi di giustizia riparativa a tutte le vittime, a prescindere dal reato che è stato commesso), lascia, tuttavia, sussistere alcune criticità correlate alla sua possibile declinazione pratica: importanti difficoltà applicative possono sorgere, infatti, nel caso di particolari reati (si pensi ai delitti di mafia e criminalità organizzata, ai crimini sessuali, ai maltrattamenti, allo stalking e così via) per i quali vi è una probabilità particolarmente alta che si verifichi una vittimizzazione reiterata e/o secondaria.

In dottrina si sono, altresì, avanzate perplessità sulla compatibilità della restorative justice con riferimento ai c.d. “reati senza vittima”, es. i reati di mera inosservanza (Palazzo).

Con riguardo all'ambito dei c.d. “delitti di relazione”, inoltre, si verifica spesso una progressione nell'offesa che può passare, a es., dalle aggressioni solo verbali a quella fisica, fino all'omicidio. Soprattutto se tali comportamenti maturano nell'ambito familiare, il danno ne può preannunciare altri e più gravi e non si limita solo alla vittima diretta della condotta delittuosa, estendendosi di frequente ai figli della “diade criminale”, nonché allo stesso offensore ed al suo ambito parentale in legame vitale con gli stessi.

Per queste tipologie delittuose i percorsi riparativi possano esplicare la massima effettività laddove siano esperiti nelle fasi iniziali della vicenda criminale e con riguardo ai reati prodromici agli agìti più gravi, assumendo una connotazione (oltre che riparativa) più francamente preventiva, laddove nella fase dell'esecuzione penale tale positivo effetto rischia di non realizzarsi affatto e di essere perfino, in alcune situazioni, controproducente.

Per taluni particolari reati connotati dall'offesa sessuale, inoltre, la legge di ordinamento penitenziario prevede che il condannato sia sottoposto ad una peculiare osservazione intramuraria con l'ausilio dell'esperto criminologo o psicologo per almeno un anno prima di poter accedere ai benefici penitenziari (art. 4-bis, comma 1-quater, ord. penit.).

La difficoltà che deve affrontare, in questi casi, l'operatore (educatore penitenziario e funzionario UEPE), riguarda la necessità di dover adottare, per una stessa vicenda, piani di lettura diversi al fine di comprendere quale sia il migliore tipo d'intervento rieducativo da attuare. È noto, infatti, che nel procedimento penale spesso si assiste ad una fase iniziale connotata da una sequela di dichiarazioni accusatorie seguite poi da ritrattazioni da parte della vittima, che continua a mantenere la relazione affettiva con l'aggressore e spesso lo supporta e lo visita in carcere, denotando una relazione affettiva che supera la sfida del processo e delle frustrazioni legate alla lontananza e alla situazione di detenzione.

Non è infrequente, anzi, che la vittima rappresenti l'unico supporto esterno per il condannato, tanto sul piano socio-economico quanto su quello affettivo. In tali casi, molto spesso l'avvio di percorsi riparativi difetta del presupposto principale, connesso alla condivisione della necessità di un tale percorso, ostacolato, non raramente, altresì dalla presenza di una parte offesa che non viene percepita come tale anche da sé stessa e che pertanto si colloca, per così dire, “dalla parte del reo”.

In queste circostanze, la “coppia autore-vittima” appare patologica con il pericolo che l'avvio di un percorso di giustizia riparativa possa comportare un non accettabile scarso livello di tutela della vittima, poiché i contatti autore/vittima potrebbero ricreare una situazione criminogena. Tali elementi dovrebbero essere attentamente valutati in sede di autorizzazione ai sensi dell'art. 129-bis c.p.p., anche ponendo attenzione sulla condotta post-delitto e sul comportamento inframurario (livello di aggressività dimostrato, capacità di tollerare le frustrazioni, adesione alle regole, disponibilità al confronto e alla rivisitazione critica, e così via).

Fondamentale è il ruolo dell 'UEPE che dovrebbe, inoltre, approfondire particolarmente nei contatti con la persona offesa (che non è, ovviamente, oggetto di osservazione intramuraria) le dinamiche e le reazioni emotive legate al condannato, così da comprendere se la stessa si trova in una di quelle condizioni studiate dalla vittimologia (possono, a es., valutarsi gli atteggiamenti assunti dalla vittima nel corso di eventuali colloqui in carcere, con tutte le azioni accuditive collegate, quali preparazione cibo, biancheria lavata e stirata etc.).

Occorre, infine, considerare che i reati di aggressione sessuale sono ad alto tasso di recidiva proprio perché il comportamento illecito è espressione della personalità dell'autore e, se non s'interviene su questa, non vi può essere alcun risultato di riduzione di tali comportamenti.

Tali innegabili criticità hanno portato ad una obiettiva difficoltà a ipotizzare l'attuazione della GR con riguardo ai reati di genere.

In questa prospettiva, si invoca spesso la contrarietà alla giustizia riparativa e ad ogni altra forma di conciliazione sancita dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa ratificata dall'Italia con la legge n. 77 del 2013 e, più precisamente, il suo art. 48, che le vieterebbe in presenza di donne vittime di violenza.

È, tuttavia, importante segnalare che, nel testo della Convenzione allegato in traduzione alla legge di ratifica italiana, la disposizione di cui all'art. 48 era stata in un primo momento formulata nei termini di divieto assoluto, mentre l'art. 48, par. 1, rubricato «Prohibition of mandatory alternative dispute resolution processes or sentencing» – che recita: «1. Parties shall take the necessary legislative or other measures to prohibit mandatory alternative dispute resolution processes, including mediation and conciliation, in relation to all forms of violence covered by the scope of this Convention» – vieta unicamente le attività di risoluzione obbligatoria della vicenda penale alternative al processo. L'evocato trattato internazionale non esclude, pertanto, che gli Stati possano prevedere l'accesso alla giustizia riparativa in materia, se esso è opzionale e dunque caratterizzato dalla volontarietà. Anche l'European Forum for Restorative Justice (EFRJ) nel 2023 ha espresso la propria posizione in materia, ribadendo che il divieto imposto dalla Convenzione di Istanbul riguarda i soli procedimenti obbligatori e non impone l'esclusione dei reati di violenza di genere dal possibile ambito applicativo della giustizia riparativa.

Nello spazio giuridico europeo, alcuni ordinamenti vietano, tuttavia, espressamente le pratiche riparative per reati di genere. In Spagna, a es., con una legge del 2004 (Ley Orgánica 1/2004, de 28 de Diciembre), prendendo atto dell'esistenza di pratiche di mediazione, è stato vietato il ricorso alla procedura mediativa in ipotesi di violenza contro le donne ed una situazione analoga si ha in Francia.

In Italia il quadro che emerge dalla disciplina organica è abbastanza chiaro. Più che incentivare o, al contrario, vietare l'uso della giustizia riparativa in generale, per queste tipologie di reato, si è – con una scelta mediana – optato per attribuire all'autorità giudiziaria una valutazione caso per caso, focalizzandosi piuttosto sull'idoneità dei soggetti interessati a partecipare al programma di giustizia riparativa che sulla tipologia di reato in sé.

Tale ampiezza applicativa chiama gli operatori e la magistratura in prima battuta ad una attenta dosimetria delle autorizzazioni ex art. 129-bis c.p.p., che guardi alle caratteristiche (e ai fattori di rischio) del caso concreto alla luce dei criteri valutativi che la evocata disposizione impone (soprattutto l'utilità e l'assenza di rischio per tutte le parti), senza adagiarsi in una deriva burocratica che potrebbe essere, inevitabilmente, favorita dal numero di richieste che dovessero pervenire al vaglio della magistratura.

Sarebbe stato, quindi, ancor più necessario che la disciplina organica della giustizia riparativa fosse stata accompagnata dalla diffusione di specifici programmi di aiuto e assistenza per le vittime finalizzati ad affrontare la crisi dell'offeso subito dopo aver subito il reato (centri di ascolto, di accoglienza e di pronto intervento), nonché a svolgere compiti di assistenza della persona vittima di reato nel corso della vicenda penale, sull'esempio delle reti di victim support, diffusi nella realtà anglosassone, in Germania, Francia, Spagna, Portogallo e in diversi altri paesi europei.

Per inciso, pare estranea alla questione dell' “universalismo” qui in esame la recente  disposizione dell'art. 7 del d.l. 4 luglio 2024, n. 92, recante “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia” – convertito in l. 8 agosto 2024, n. 112 – con la quale è stato modificato l'art. 41-bis l. 26 luglio 1975, n. 354 recante disciplina del regime detentivo differenziato, che ha inteso escludere dall'accesso ai programmi di giustizia riparativa i soggetti sottoposti allo speciale regime detentivo di cui all'art. 41-bis ord. penit. (comma 2-quater, l. f-bis). Tale esclusione, infatti, non riguarda specifiche fattispecie delittuose bensì mira a inasprire ulteriormente, per profili afferenti alle esigenze di difesa sociale, connessi alla pericolosità sociale espressa dai condannati e internati sottoposti all'evocato speciale regime detentivo.

In disparte i casi sopra segnalati e le indubbie peculiarità che ne contraddistinguono la natura, tanto sotto il profilo dei beni aggrediti quanto delle conseguenze a lungo termine che imprimono nella vita delle persone coinvolte, è certo che l'universalismo della GR accolto dalla disciplina organica ponga una sfida in termini di risorse da investire, indispensabili per rendere i centri per la giustizia riparativa in grado di accogliere tutte le richieste che perverranno e di raccordo sinergico tra le agenzie di restorative justice e quelle di tutela delle vittime.

Resta, in tale prospettiva di analisi, da chiederci quale applicazione sia stata data alla Direttiva 2012 dallo Stato italiano nella parte in cui prevede (artt. 8 e 9) l'istituzione di diffusi e «specifici servizi di assistenza riservati, gratuiti e operanti nell'interesse della vittima, prima, durante e per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale». Mentre esiste un'importante rete di assistenza per le donne vittime di violenza di genere e domestica73 manca del tutto un coordinamento locale e nazionale di servizi per il sostegno e l'orientamento in generale delle vittime di reato, a parte l'esperienza della Rete Dafne Italia.

Fino ad ora, pertanto, l'assistenza alle vittime è così rimasta limitata solo ad alcune categorie di offesi (donne e bambini) e ad alcune tipologie di tutela (ad es. benefici economici o previdenziali per le vittime di terrorismo o di criminalità organizzata). Soprattutto non è stata predisposta alcuna strategia volta ad istituire nel nostro paese una rete integrata di servizi capaci di intercettare, ricevere e orientare le richieste di informazioni, cura e sostegno espresse all'indomani di un crimine.

Attualmente, inoltre, la maggior parte delle richieste riguardano proprio quei reati che suscitano le maggiori riserve (reati sessuali, maltrattamenti) perché la relazione tra le due parti è una relazione asimmetrica. Ciò però significa un rischio perché premessa per una GR che possa condurre a un esito riparativo è che tra autore e vittima vi sia una posizione paritaria.

La soluzione sarebbe quella di una sinergia tra magistrati, avvocati e centri per la giustizia riparativa per capire quali sono le situazioni che possano andare in GR e quali invece non siano idonee ed anzi per le quali la restorative justice potrebbe portare, addirittura, a conseguenze negative.

Il problema della vittima “surrogata” o “a-specifica”

La mediazione può essere condotta con la vittima di un reato diverso da quello per cui si procede, e quindi in massima sicurezza per la vittima reale (art. 53, comma 1 lett. a). A tale riguardo, l'Handbook on Restorative Justice Programmes delle Nazioni Unite inserisce la mediazione con vittima surrogata tra i “quasi-restorative justice processes”, visto che la vittima diretta non è coinvolta, ma il d.lgs. n. 150/2022 legittima questi interventi, che hanno il merito di agevolare il percorso di responsabilizzazione dell'offender, consentendogli di percepire il disvalore dell'offesa, senza esporre la persona offesa ad alcun pericolo. Ci si può indubbiamente chiedere se questo tipo di programma sia perfettamente in linea con le caratteristiche fondative della giustizia riparativa, soprattutto quando le vittime siano espressamente contrarie sia a partecipare in prima persona, sia allo svolgimento di un programma così strutturato, valutato in concreto invece dai mediatori come fattibile, anche alla luce dell'atteggiamento della persona indicata come autore dell'offesa.

Nella definizione di mediazione si parla della possibilità che l'incontro possa avvenire con una vittima di un reato diverso da quello per cui si procede (c.d. “vittima surrogata” o “a-specifica”). Viene da chiedersi, in questi casi, quale è il consenso che vale per l'avvio della giustizia riparativa: quello della vittima effettiva o quello della vittima surrogata? Se valesse quest'ultimo, infatti, si violerebbe il principio di autodeterminazione della vittima effettiva che resterebbe esclusa e costretta ad una marginalità che ne accentuerebbe la vittimizzazione secondaria. Certo, la pratica conosce programmi con vittima “surrogata”, ma prevedere legalmente la possibilità di sostituire una vittima con un'altra – come ha fatto il d.lgs. n. 150/2022 - significa accettare il rischio di questa possibile conseguenza. Dovrebbe, invece, essere lasciato ai mediatori il compito di comprendere le ragioni per le quali la vittima effettiva rifiuta l'incontro. In ogni caso i programmi di GR possono essere svolti anche in modi che non prevedano la vittima surrogata e dunque non appare necessario l'avere previsto il ricorso a tale ipotesi di programma.

Anche in questo caso, riemerge una prospettiva reocentrica: se una vittima vuole l'incontro e l'autore la rifiuta, il sistema non fornisce certo alla vittima un autore “surrogato”, mentre vale – come si è visto - il contrario.

In conclusione

Un profilo di criticità emergente nella prospettiva reocentrica che contraddistingue tuttora la fase processuale e quella esecutiva della pena, riguarda la oggettiva posizione non paritaria tra l'autore di reato, per il quale l'ordinamento appresta un generoso ventaglio di premialità per favorirne l'adesione ai programmi riparativi, e la vittima, esposta ai rischi di strumentalizzazione e vittimizzazione secondaria e – in assenza di appropriate disposizioni per lo sviluppo dei servizi di assistenza alle vittime, di fatto lasciata sola di fronte alla decisione se accettare, o no, il percorso riparativo.

Per salvaguardare la natura della GR sarebbe dunque necessario svincolare l'accesso ai programmi da una prospettiva premiale (che premia, invero, solo una delle parti, cioè l'autore), ma tale scelta comporterebbe, inevitabilmente, la forte contrazione numerica delle richieste di accesso ai pochi casi in cui la mediazione sia avvertita da entrambe le parti come una effettiva necessità per cercare di sanare la sofferenza profonda generata dalla vicenda criminale e non soprattutto come una prospettiva per ottenere un vantaggio sul piano processuale o esecutivo. Da questo punto di vista, mentre l'interesse dell'autore può essere mosso soprattutto dalla prospettiva della premialità, il bisogno della vittima che un Centro di giustizia riparativa può soddisfare è quello del bisogno dell'incontro con l'autore, il solo che può rispondere a determinate domande della vittima.

Se è vero che le premialità assolvono – nella visione della riforma Cartabia – l'importante funzione di incentivare il ricorso dell'autore ai programmi di restorative justice, è quindi evidente lo squilibrio che si viene a produrre rispetto alla posizione delle parti, che dovrebbe, invece, restare equiordinata.

Nella prospettiva già delineata di portare tutte le parti su un piano di oggettiva parità, sarebbe indispensabile realizzare il raccordo tra i Centri di giustizia riparativa e quelli di assistenza alle vittime, che dovrebbero intercettare le esigenze della vittime (soprattutto nel caso di violenza di genere e violenza domestica) e, all'sito della prospettazione condivisa di un percorso, potrebbero accompagnare in sicurezza le vittime ai servizi di giustizia riparativa, soprattutto in presenza di reati come quelli appena indicati.

Sul piano concreto, infine, i rischi più immediati a quali l'avvio della giustizia riparativa si trova esposto sono correlati alla scarsità di risorse (i centri sono pochi e potrebbero non riuscire a soddisfare la domanda di GR) e l'universalismo che la scelta italiana ha impresso alla restorative justice, esperibile per tutti i reati, laddove, forse, sarebbe stata opportuna una delimitazione ope legis dei casi in cui è possibile percorrere la difficile strada della mediazione.

Riferimenti

  • Bartoli R., una giustizia senza violenza, né stato, né diritto - Ancora sul paradigma giuridico della giustizia riparativa, relazione tenuta al Convegno La Riforma Cartabia tra non punibilità e nuove risposte sanzionatorie, svoltosi a Trento nei giorni 24-25 marzo 2023;
  • Bartoli R., Complementarietà, innesto e rientro nella disciplina della giustizia riparativa, in Sist.pen., 12.03.2025;
  • Bouchard M., I diritti degli offesi. Storia di una lotta per il riconoscimento, in questionegiustizia, 23 settembre 2024;  
  • Fiorentin F. – Bouchard M., La giustizia riparativa, Giuffrè Francis Lefebvre, 2024;
  • Palazzo F., Giustizia riparativa e giustizia punitiva, in G. Mannozzi - G.A. Lodigiani (a cura di), Giustizia riparativa, Bologna, 2015.

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