Il carattere “universalistico” della giustizia riparativa
Nell'esperienza pratica si potrebbero riscontrare delle criticità in rapporto alla caratteristica di universalità della GR.
Già nell'ambito degli Stati Generali dell'esecuzione penale, istituiti dal ministro della giustizia nel 2015, il Tavolo 13 in tema di “Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato” aveva elaborato una serie di proposte per allineare l'ordinamento penale italiano alle previsioni della direttiva 2012/29/UE e, in particolare, per promuovere “l'accesso alla giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento”. Quest'ultima indicazione è presente anche nella Raccomandazione CM/Rec(2018)8 (paragrafi 6 e 19).
Il principio dell'accesso alla giustizia riparativa “senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità” è stato quindi codificato dalla legge-delega (art. 1 comma 18, lett. c), l. 27 settembre 2021, n. 134).
La previsione, sicuramente condivisibile sul piano teorico (l'obiettivo è quello di offrire la possibilità di accedere a percorsi di giustizia riparativa a tutte le vittime, a prescindere dal reato che è stato commesso), lascia, tuttavia, sussistere alcune criticità correlate alla sua possibile declinazione pratica: importanti difficoltà applicative possono sorgere, infatti, nel caso di particolari reati (si pensi ai delitti di mafia e criminalità organizzata, ai crimini sessuali, ai maltrattamenti, allo stalking e così via) per i quali vi è una probabilità particolarmente alta che si verifichi una vittimizzazione reiterata e/o secondaria.
In dottrina si sono, altresì, avanzate perplessità sulla compatibilità della restorative justice con riferimento ai c.d. “reati senza vittima”, es. i reati di mera inosservanza (Palazzo).
Con riguardo all'ambito dei c.d. “delitti di relazione”, inoltre, si verifica spesso una progressione nell'offesa che può passare, a es., dalle aggressioni solo verbali a quella fisica, fino all'omicidio. Soprattutto se tali comportamenti maturano nell'ambito familiare, il danno ne può preannunciare altri e più gravi e non si limita solo alla vittima diretta della condotta delittuosa, estendendosi di frequente ai figli della “diade criminale”, nonché allo stesso offensore ed al suo ambito parentale in legame vitale con gli stessi.
Per queste tipologie delittuose i percorsi riparativi possano esplicare la massima effettività laddove siano esperiti nelle fasi iniziali della vicenda criminale e con riguardo ai reati prodromici agli agìti più gravi, assumendo una connotazione (oltre che riparativa) più francamente preventiva, laddove nella fase dell'esecuzione penale tale positivo effetto rischia di non realizzarsi affatto e di essere perfino, in alcune situazioni, controproducente.
Per taluni particolari reati connotati dall'offesa sessuale, inoltre, la legge di ordinamento penitenziario prevede che il condannato sia sottoposto ad una peculiare osservazione intramuraria con l'ausilio dell'esperto criminologo o psicologo per almeno un anno prima di poter accedere ai benefici penitenziari (art. 4-bis, comma 1-quater, ord. penit.).
La difficoltà che deve affrontare, in questi casi, l'operatore (educatore penitenziario e funzionario UEPE), riguarda la necessità di dover adottare, per una stessa vicenda, piani di lettura diversi al fine di comprendere quale sia il migliore tipo d'intervento rieducativo da attuare. È noto, infatti, che nel procedimento penale spesso si assiste ad una fase iniziale connotata da una sequela di dichiarazioni accusatorie seguite poi da ritrattazioni da parte della vittima, che continua a mantenere la relazione affettiva con l'aggressore e spesso lo supporta e lo visita in carcere, denotando una relazione affettiva che supera la sfida del processo e delle frustrazioni legate alla lontananza e alla situazione di detenzione.
Non è infrequente, anzi, che la vittima rappresenti l'unico supporto esterno per il condannato, tanto sul piano socio-economico quanto su quello affettivo. In tali casi, molto spesso l'avvio di percorsi riparativi difetta del presupposto principale, connesso alla condivisione della necessità di un tale percorso, ostacolato, non raramente, altresì dalla presenza di una parte offesa che non viene percepita come tale anche da sé stessa e che pertanto si colloca, per così dire, “dalla parte del reo”.
In queste circostanze, la “coppia autore-vittima” appare patologica con il pericolo che l'avvio di un percorso di giustizia riparativa possa comportare un non accettabile scarso livello di tutela della vittima, poiché i contatti autore/vittima potrebbero ricreare una situazione criminogena. Tali elementi dovrebbero essere attentamente valutati in sede di autorizzazione ai sensi dell'art. 129-bis c.p.p., anche ponendo attenzione sulla condotta post-delitto e sul comportamento inframurario (livello di aggressività dimostrato, capacità di tollerare le frustrazioni, adesione alle regole, disponibilità al confronto e alla rivisitazione critica, e così via).
Fondamentale è il ruolo dell 'UEPE che dovrebbe, inoltre, approfondire particolarmente nei contatti con la persona offesa (che non è, ovviamente, oggetto di osservazione intramuraria) le dinamiche e le reazioni emotive legate al condannato, così da comprendere se la stessa si trova in una di quelle condizioni studiate dalla vittimologia (possono, a es., valutarsi gli atteggiamenti assunti dalla vittima nel corso di eventuali colloqui in carcere, con tutte le azioni accuditive collegate, quali preparazione cibo, biancheria lavata e stirata etc.).
Occorre, infine, considerare che i reati di aggressione sessuale sono ad alto tasso di recidiva proprio perché il comportamento illecito è espressione della personalità dell'autore e, se non s'interviene su questa, non vi può essere alcun risultato di riduzione di tali comportamenti.
Tali innegabili criticità hanno portato ad una obiettiva difficoltà a ipotizzare l'attuazione della GR con riguardo ai reati di genere.
In questa prospettiva, si invoca spesso la contrarietà alla giustizia riparativa e ad ogni altra forma di conciliazione sancita dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d'Europa ratificata dall'Italia con la legge n. 77 del 2013 e, più precisamente, il suo art. 48, che le vieterebbe in presenza di donne vittime di violenza.
È, tuttavia, importante segnalare che, nel testo della Convenzione allegato in traduzione alla legge di ratifica italiana, la disposizione di cui all'art. 48 era stata in un primo momento formulata nei termini di divieto assoluto, mentre l'art. 48, par. 1, rubricato «Prohibition of mandatory alternative dispute resolution processes or sentencing» – che recita: «1. Parties shall take the necessary legislative or other measures to prohibit mandatory alternative dispute resolution processes, including mediation and conciliation, in relation to all forms of violence covered by the scope of this Convention» – vieta unicamente le attività di risoluzione obbligatoria della vicenda penale alternative al processo. L'evocato trattato internazionale non esclude, pertanto, che gli Stati possano prevedere l'accesso alla giustizia riparativa in materia, se esso è opzionale e dunque caratterizzato dalla volontarietà. Anche l'European Forum for Restorative Justice (EFRJ) nel 2023 ha espresso la propria posizione in materia, ribadendo che il divieto imposto dalla Convenzione di Istanbul riguarda i soli procedimenti obbligatori e non impone l'esclusione dei reati di violenza di genere dal possibile ambito applicativo della giustizia riparativa.
Nello spazio giuridico europeo, alcuni ordinamenti vietano, tuttavia, espressamente le pratiche riparative per reati di genere. In Spagna, a es., con una legge del 2004 (Ley Orgánica 1/2004, de 28 de Diciembre), prendendo atto dell'esistenza di pratiche di mediazione, è stato vietato il ricorso alla procedura mediativa in ipotesi di violenza contro le donne ed una situazione analoga si ha in Francia.
In Italia il quadro che emerge dalla disciplina organica è abbastanza chiaro. Più che incentivare o, al contrario, vietare l'uso della giustizia riparativa in generale, per queste tipologie di reato, si è – con una scelta mediana – optato per attribuire all'autorità giudiziaria una valutazione caso per caso, focalizzandosi piuttosto sull'idoneità dei soggetti interessati a partecipare al programma di giustizia riparativa che sulla tipologia di reato in sé.
Tale ampiezza applicativa chiama gli operatori e la magistratura in prima battuta ad una attenta dosimetria delle autorizzazioni ex art. 129-bis c.p.p., che guardi alle caratteristiche (e ai fattori di rischio) del caso concreto alla luce dei criteri valutativi che la evocata disposizione impone (soprattutto l'utilità e l'assenza di rischio per tutte le parti), senza adagiarsi in una deriva burocratica che potrebbe essere, inevitabilmente, favorita dal numero di richieste che dovessero pervenire al vaglio della magistratura.
Sarebbe stato, quindi, ancor più necessario che la disciplina organica della giustizia riparativa fosse stata accompagnata dalla diffusione di specifici programmi di aiuto e assistenza per le vittime finalizzati ad affrontare la crisi dell'offeso subito dopo aver subito il reato (centri di ascolto, di accoglienza e di pronto intervento), nonché a svolgere compiti di assistenza della persona vittima di reato nel corso della vicenda penale, sull'esempio delle reti di victim support, diffusi nella realtà anglosassone, in Germania, Francia, Spagna, Portogallo e in diversi altri paesi europei.
Per inciso, pare estranea alla questione dell' “universalismo” qui in esame la recente disposizione dell'art. 7 del d.l. 4 luglio 2024, n. 92, recante “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia” – convertito in l. 8 agosto 2024, n. 112 – con la quale è stato modificato l'art. 41-bis l. 26 luglio 1975, n. 354 recante disciplina del regime detentivo differenziato, che ha inteso escludere dall'accesso ai programmi di giustizia riparativa i soggetti sottoposti allo speciale regime detentivo di cui all'art. 41-bis ord. penit. (comma 2-quater, l. f-bis). Tale esclusione, infatti, non riguarda specifiche fattispecie delittuose bensì mira a inasprire ulteriormente, per profili afferenti alle esigenze di difesa sociale, connessi alla pericolosità sociale espressa dai condannati e internati sottoposti all'evocato speciale regime detentivo.
In disparte i casi sopra segnalati e le indubbie peculiarità che ne contraddistinguono la natura, tanto sotto il profilo dei beni aggrediti quanto delle conseguenze a lungo termine che imprimono nella vita delle persone coinvolte, è certo che l'universalismo della GR accolto dalla disciplina organica ponga una sfida in termini di risorse da investire, indispensabili per rendere i centri per la giustizia riparativa in grado di accogliere tutte le richieste che perverranno e di raccordo sinergico tra le agenzie di restorative justice e quelle di tutela delle vittime.
Resta, in tale prospettiva di analisi, da chiederci quale applicazione sia stata data alla Direttiva 2012 dallo Stato italiano nella parte in cui prevede (artt. 8 e 9) l'istituzione di diffusi e «specifici servizi di assistenza riservati, gratuiti e operanti nell'interesse della vittima, prima, durante e per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale». Mentre esiste un'importante rete di assistenza per le donne vittime di violenza di genere e domestica73 manca del tutto un coordinamento locale e nazionale di servizi per il sostegno e l'orientamento in generale delle vittime di reato, a parte l'esperienza della Rete Dafne Italia.
Fino ad ora, pertanto, l'assistenza alle vittime è così rimasta limitata solo ad alcune categorie di offesi (donne e bambini) e ad alcune tipologie di tutela (ad es. benefici economici o previdenziali per le vittime di terrorismo o di criminalità organizzata). Soprattutto non è stata predisposta alcuna strategia volta ad istituire nel nostro paese una rete integrata di servizi capaci di intercettare, ricevere e orientare le richieste di informazioni, cura e sostegno espresse all'indomani di un crimine.
Attualmente, inoltre, la maggior parte delle richieste riguardano proprio quei reati che suscitano le maggiori riserve (reati sessuali, maltrattamenti) perché la relazione tra le due parti è una relazione asimmetrica. Ciò però significa un rischio perché premessa per una GR che possa condurre a un esito riparativo è che tra autore e vittima vi sia una posizione paritaria.
La soluzione sarebbe quella di una sinergia tra magistrati, avvocati e centri per la giustizia riparativa per capire quali sono le situazioni che possano andare in GR e quali invece non siano idonee ed anzi per le quali la restorative justice potrebbe portare, addirittura, a conseguenze negative.