Giustizia riparativa ed esecuzione penale: il complesso rapporto tra rieducazione del condannato e tutela della vittima

Fabio Fiorentin
21 Maggio 2025

La disciplina organica sulla giustizia riparativa introdotta dal d.lgs. n. 150/2022, definita come “fiore all'occhiello” della “riforma Cartabia”, sconta gravi criticità nel suo armonizzarsi con i princìpi che sovraintendono all'esecuzione penale orientata in senso costituzionale e con la conseguente focalizzazione della disciplina penitenziaria sul condannato piuttosto che sulla figura della vittima.

Giustizia riparativa ed esecuzione penale: le posizioni della dottrina

Sui rapporti tra la giustizia riparativa (di seguito anche: GR) e la disciplina penitenziaria in materia di esecuzione della pena la dottrina appare piuttosto divisa. Per alcuni, sarebbe, infatti, proprio la fase dell'esecuzione penale a rappresentare la “fase di elezione” per la restorative jusitice: «È verosimile che, in ragione del tempo che serve di norma per far maturare le condizioni per l'incontro e la riparazione, sia la fase dell'esecuzione penale quella destinata a risultare terreno di elezione dei programmi di giustizia riparativa. Ma non è detto – e, anzi, la prima applicazione della nuova disciplina lo conferma – che la via della giustizia riparativa sia percorsa già in sede di indagini o in altri momenti dell'iter processuale» (Gatta).

Nello stesso senso si orientano quanti ritengono che, laddove centrale è l'ascolto e la possibilità di raccontare la propria esperienza in un contesto extraprocessuale e con la possibilità di fruire di un tempo non contingentato o inappropriato, si fà riferimento a una condizione che si realizza meglio nella fase esecutiva piuttosto che nelle contingentate scansioni del processo penale, soprattutto se assoggettate alle pressanti esigenze di deflazione delle tempistiche di definizione (Passione).

Altri ancora si interrogano sulla compatibilità tra la finalità rieducativa della pena, intesa laicamente, e le pratiche riparative (Fiandaca), riflettendo una legittima preoccupazione che è stata fatta propria dal legislatore, il quale ha, infatti, raccolto in autonome e distinte norme la disciplina connessa specificamente alla rieducazione del reo (art. 13 e 13-bis ord. penit.) e quella relativa alla giustizia riparativa (art. 15-bis ord. penit.).

Nello stesso senso, si avverte il pericolo che, in executivis, la GR possa essere distorta a fini di pay-back sanction: che sia, cioè, intesa in senso retribuzionistico o risarcitorio, confondendosi con le finalità anche riparatorie perseguite dall'esecuzione della pena, sia nella forma carceraria che a mezzo delle misure alternative (in particolare, attraverso le prescrizioni di cui al comma 7 dell'art. 47 ord.penit. e l'onere di adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato previsto quale presupposto della liberazione condizionale).

Più generali perplessità emergono in chi ritiene, sul piano “economicistico”, che l'irruzione della giustizia riparativa nel contesto esecutivo costituisca un connotato schizofrenico del sistema, che dapprima investe ingenti risorse processuali in una logica adversary per giungere all'accertamento processuale per poi favorire l'incontro tra reo e vittima (così ritiene Palazzo, per il quale «”consumare” un intero processo, con l'esacerbazione del conflitto interpersonale che esso comporta, per poi prospettare un esito conciliativo «appare sinceramente un controsenso»).

Per altri Autori, invece, la giustizia riparativa si innesterebbe armonicamente nella finalità rieducativa della pena, che implica in capo all'autore di reato (ormai condannato) il riconoscimento della vittima come tale e la ricerca delle soluzioni praticabili per risanare la ferita inferta con la commissione del reato (Mattevi, Viganò).

Questa posizione pone in luce un problema concettuale, cioè la necessaria distinzione tra il fine perseguito dalla GR e quello perseguito dall'esecuzione penale costituzionalmente orientata: la prima mira a un incontro tra autore e vittima che porti al risanamento della ferita, la seconda cerca il recupero sociale del reo.

Un punto di interconnessione tra queste due finalità si può concretamente cercare, con l'obiettivo di implementare reciprocamente l'una e l'altra finalità, a patto di non subordinare al positivo risultato del programma di GR il giudizio sulla avvenuta risocializzazione del condannato. Ed è proprio questo difficile equilibrio che il legislatore ha cercato di cristallizzare nelle già evocate disposizioni introdotte dalle “riforma Cartabia” nella legge di ordinamento penitenziario. 

Il piano costituzionale

La dottrina ha mosso molte importanti obiezioni sul piano della compatibilità costituzionale del sistema italiano della GR innestata nel processo penale. Queste obiezioni perdono, tuttavia, molto della loro pregnanza se calate nella fase esecutiva:

  • il criterio secondo cui il programma riparativo deve essere «utile» «alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto» (cui fa riferimento l'art. 129-bis c.p.p.) è stato ritenuto intrinsecamente incompatibile con il principio di non colpevolezza allorché dovesse essere inteso come regola di giudizio anche nel merito dei fatti (Mazza); la presunzione di non colpevolezza è annoverata anche dall'art. 6, comma 2, della CEDU e dall'art. 14, comma 2, del Patto internazionale sui diritti civili e politici (sebbene, come è noto, per entrambe le disposizioni essa sia garantita solo fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata anche nel primo grado di giudizio);
  • risulterebbe minata l'imparzialità del giudicante: formulando l'invio dell'imputato al centro per la giustizia riparativa prima della condanna, il giudice anticiperebbe il convincimento sulla colpevolezza del soggetto, senza che esista un rimedio per ripristinare la situazione di imparzialità, non essendo applicabile l'istituto della ricusazione in mancanza del carattere indebito della manifestazione circa la considerazione di colpevolezza dell'imputato;
  • la disposizione dell'art. 129-bis c.p.p., consentendo al pubblico ministero e al giudice di obbligare un'altra parte (l'imputato) a tenere un determinato comportamento (quello, cioè, di presentarsi a un centro per la GR che dovrebbe invece rientrare nelle prerogative difensive, ossia nell'esercizio di un diritto costituzionale definito inviolabile in ogni stato e grado del procedimento dall'art. 24, comma 2, Cost.), si porrebbe in contrasto con il principio di parità fra le parti alla base del modello costituzionale del giusto processo, delineato dall'art. 111, comma 2, Cost. (Mazza).

   

Si tratta di non trascurabili obiezioni che tuttavia, nella fase dell'esecuzione penale, appaiono meno pregnanti, dal momento che abbiamo a che fare con un accertamento del fatto e della responsabilità ormai cristallizzato e con un autore di reato ormai divenuto condannato.

La posizione della Corte costituzionale: la sentenza n. 179/2017

Nella fase esecutiva della pena, i punti di incontro tra GR e disciplina penitenziaria appaiono prima facie più numerosi di quelli di frizione.

Già con la sentenza costituzionale n. 179 del 2017 la Consulta aveva sviluppato il contenuto precettivo dell'art. 27, comma 3, Cost. («Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato») enucleando quattro scopi delle pene ed affermando che esse devono essere orientate «allo scopo di favorire il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale del condannato». Tali appena indicati elementi vanno, dunque, a comporre il concetto di “rieducazione” del reo utilizzato dalla Costituzione.

La Costituzione pretende – si legge in quella sentenza – che la pena non solo sia confinata alla «misura minima necessaria» e sia contenuta entro i limiti della proporzionalità, ma sia altresì orientata «allo scopo di favorire il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale» del condannato. quattro scopi, tutti caratterizzati dal prefisso “ri”: un prefisso che allude, scopertamente, a un “ricominciare da capo”, a una “ripartenza”, da parte dello stesso condannato (Viganò).

Tali elementi vanno a comporre il concetto di “rieducazione” del reo utilizzato dalla Costituzione.

In particolare, il reinserimento sociale è l'obiettivo ultimo che da parecchi decenni, quanto meno dagli anni settanta, la dottrina italiana assegna alla pena, e che allude a un reingresso del condannato nel tessuto sociale. Ma questo obiettivo per così dire “esterno”, a tutti visibile, ci dice la sentenza 179, si può pienamente raggiungere solo attraverso un cammino che passa prima per l'interiorità del condannato, e che non può non comportare un lavoro sulla ferita intersoggettiva provocata dal reato, anzitutto nei confronti della vittima.

Le tappe di questo percorso intermedio sono, nella sentenza n. 179/17, articolate come segue:

a) vi è, anzitutto, la necessità di un recupero: espressione che allude a un percorso interiore di revisione critica, da parte dell'autore del reato, del proprio passato, e in particolare di quel frammento del proprio passato in cui si innesta l'episodio rappresentato dal reato.

L'idea di “recupero” sarà ampiamente articolata in una successiva sentenza della Corte, la n. 149 del 2018, in cui si legge che all'art. 27, terzo comma, è sotteso l'assunto «secondo cui la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss'anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento». Cambiamento, anzitutto, interiore, che implica la «revisione critica del proprio passato» e la «ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile», e che è compito del sistema penitenziario nel suo complesso stimolare e favorire, nel rispetto della libertà interiore del condannato, senza la quale questo percorso non sarebbe possibile.

b) Tuttavia, ogni cambiamento interiore deve poi proiettarsi nella sfera esterna all'individuo, per poter essere socialmente riconosciuto. Ciò ci conduce al concetto di riparazione, che allude all'esigenza che il condannato si attivi per risanare quella ferita intersoggettiva provocata dal reato di cui parlavamo, soprattutto quando questa ferita sia stata arrecata dall'autore a una vittima concreta. Il percorso che dovrà condurre alla risocializzazione dovrebbe idealmente includere, laddove possibile, la rimozione o l'attenuazione degli effetti lesivi provocato dal reato, attraverso il risarcimento pecuniario del danno.

Qui si innesta, tuttavia, una duplice difficoltà. Da un lato, raramente il condannato disporrà dei mezzi sufficienti a questo scopo. Dall'altro, lo stesso risarcimento pecuniario appare come un rimedio in larga misura inadeguato a sanare il vuluns esistenziale provocato nella vittima dal reato.

Come pongono in evidenza gli studi sulla giustizia riparativa (e soprattutto le riflessioni di G. Mannozzi) – la corresponsione di una somma di denaro lascia spesso le vittime prive di quel riconoscimento della singolarità della loro esperienza che è essenziale per sperimentare la closure, e cioè il chiudere i conti con il reato senza oblio, e possibilmente senza “resti”, in termini di sconfitta o di rivalsa. C'è, insomma, una componente “morale”, o meglio ancora “emozionale”, che il pagamento di una somma di denaro non è in grado di assicurare alla vittima, che ha bisogno di vedere la propria sofferenza e la propria umiliazione riconosciuta da chi l'ha causata.

c) Ed ecco allora l'idea della riconciliazione con la vittima e l'intera comunità, che è poi la vera innovazione apportata dalla giustizia riparativa rispetto alla prospettiva tradizionale della riparazione dei danni provocati dal reato, nota da sempre alla nostra legislazione penale.

Un tale, ambizioso, obiettivo presuppone un percorso che dovrebbe idealmente coinvolgere – sotto la supervisione e la guida di mediatori professionali – la stessa vittima nell'ascolto della narrazione, dell'assunzione di responsabilità e della stessa manifestazione di rincrescimento da parte dell'autore del reato; e possibilmente dovrebbe, altresì, innescare un dialogo, che è a sua volta presupposto per una possibile riconciliazione tra autore e vittima.

d) Solo da questa riconciliazione – con la vittima e con la collettività – possono scaturire le condizioni più robuste per il raggiungimento dell'obiettivo costituzionale “finale” della pena, identificato nella “risocializzazione” del condannato: ossia il suo reingresso nella società come persona in grado di offrire, ormai, il proprio autonomo contributo al progresso materiale e spirituale della società, come recita felicemente l'art. 4 Cost.

Secondo la visione della Corte costituzionale, il reinserimento sociale è la finalità ultima che la Carta fondamentale assegna alla pena, ma questo obiettivo si può raggiungere solo attraverso un percorso che passa prima per il cambiamento interiore del condannato quale premessa per un'attivazione diretta a sanare la ferita intersoggettiva provocata dal reato, anzitutto nei confronti della vittima.

Attraverso il percorso interiore di revisione critica, da parte dell'autore del reato, questi può idealmente staccarsi – come ben ha ricordato lo stesso Giudice delle leggi nella sentenza n. 149/2018 - dal reato commesso, per poi proiettarsi nella sfera esterna, per poter essere socialmente riconosciuto.

L'idea di “recupero” è il perno centrale della sentenza della costituzionale n. 149 del 2018, in cui si legge che all'art. 27, terzo comma, è sotteso l'assunto «secondo cui la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss'anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento». Cambiamento, anzitutto, interiore, che implica la «revisione critica del proprio passato» e la «ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile», e che è compito del sistema penitenziario nel suo complesso stimolare e favorire, nel rispetto della libertà interiore del condannato, senza la quale questo percorso non sarebbe possibile (Viganò).

Tutto questo dovrebbe articolarsi in un percorso graduale dell'autore nella direzione della sua vittima) e non può che indirizzarsi prioritariamente verso la vittima effettiva. Spesso, tuttavia, quest'ultima non può o non vuole accedere all'incontro riparativo e l'ordinamento riconosce la possibilità di indirizzarsi su programmi che coinvolgono le c.d. vittime “surrogate” o “a-specifiche”. Ritorneremo in un'altra occasione su questo delicatissimo aspetto.

Anche nel percorso di ricollocamento sociale del reo perseguita dalla Costituzione è dunque necessaria la riconciliazione con la vittima e più ampiamente con l'intera comunità, che è poi la vera innovazione apportata dalla giustizia riparativa rispetto alla prospettiva tradizionale della riparazione dei danni provocati dal reato, nota da sempre alla nostra legislazione penale; innovazione – per inciso – che pare indirettamente agevolata nel suo svilupparsi nel contesto del procedimento penale in virtù della scelta della complementarietà della GR rispetto alla risposta penale tradizionale abbracciata dal legislatore della riforma, che colloca le attività afferenti alla restorative justice nel contesto pubblicistico in cui si contrappongono, nel processo, la pretesa punitiva monopolizzata dallo Stato e le ragioni della difesa.

Nell'attenzione all'approccio tendenzialmente “comunitario” alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto-reato, attraverso il quale la giustizia riparativa può, in alcuni casi, favorire l'incontro e la riconciliazione tra l'autore e la collettività sociale offesa dal reato, praticata attraverso le community conferences ed ai c.d. “programmi allargati” si può forse cogliere un elemento di, pur problematico, contatto tra la giustizia riparativa e la “giustizia trasformativa”.

Un obiettivo così ambizioso presuppone un percorso che dovrebbe idealmente coinvolgere – sotto la supervisione e la guida di mediatori professionali – la stessa vittima nell'ascolto della narrazione, dell'assunzione di responsabilità e della stessa manifestazione di rincrescimento da parte dell'autore del reato; e possibilmente dovrebbe, altresì, innescare un dialogo tra le parti, a sua volta presupposto per una possibile riconciliazione.

Tale esito si colloca, prioritariamente, in una dimensione intersoggettiva binaria (autore/vittima), ma senza escludere il coinvolgimento della più ampia comunità di riferimento della vittima e del condannato, soprattutto quando si tratti di fatti-reato che non offendono vittime specifiche, bensì appunto l'intera collettività, come i reati di corruzione, di criminalità organizzata, o addirittura i crimini contro l'umanità.

Solo attraverso questa riconciliazione – con la vittima concreta e, più ampiamente, con la collettività – l'autore di reato può effettivamente dirsi reintegrato nella società e l'obiettivo costituzionale “finale” della pena può considerarsi pienamente realizzato.

Quindi, il punto di incontro tra GR e pena finalisticamente orientata alla risocializzazione si trova nella Costituzione, che scommette sul cambiamento e sull'idea che nessuno è realmente perduto per sempre, qualunque cosa abbia fatto e che tutti abbiano la possibilità di riconciliarsi con il proprio passato, con le proprie vittime e con l'intera comunità. Un'idea nella quale anche la giustizia riparativa si riconosce (Mannozzi).

Piuttosto, a contatto con la giustizia riparativa, lo stesso concetto di rieducazione di cui all'art. 27.3 Cost. si trasforma in una prospettiva relazionale di responsabilizzazione e di apertura all'altro ovvero di assunzione, attraverso il confronto con l'altro, della piena responsabilità delle proprie azioni. Il vero problema sarebbe ancora una volta l'eventuale imposizione del confronto, che tuttavia è assente (Bartoli).

Risultano evidenti in filigrana le visioni divergenti della Corte costituzionale e della Cassazione sulla natura della giustizia riparativa.

L'impostazione della Corte costituzionale riflette una concezione della  GR come coessenziale alla pena stessa intesa in senso costituzionale;  la Cassazione afferma invece l'idea che la restorative justice è complementare alla tradizionale risposta statuale e tende ad escluderne un fondamento costituzionale, affermando addirittura – in una recente pronuncia, che la GR non può trovare spazio nella fase di esecuzione della pena, andando perfino contro il dato letterale (così, ad esempio, Cass. pen., sez. I, 9 luglio 2024, n. 41133, che ha escluso la possibilità di accedere al programma riparativo durante l'esecuzione della pena, in violazione di quanto con chiarezza stabilito dall'art. 44 d.lgs. n. 150/2022). Precisamente, la Suprema Corte ha affermato che – alla luce del disposto di cui al comma 2 dell'art. 44, d.lgs. 150/2022 (« ai programmi di giustizia riparativa “si può accedere in ogni stato e grado del procedimento penale, nella fase esecutiva della pena e della misura di sicurezza, dopo l'esecuzione delle stesse… »), trovandosi il ricorrente detenuto in esecuzione di pena, « egli non può essere ammesso ad alcun programma di giustizia riparativa sintantoché la pena sarà in esecuzione, indipendentemente dal regime a cui è sottoposto». L'interpretazione adottata dai Supremi Giudici appare in contrasto non solo con il tenore letterale del comma 2, art. 44 d.lgs. n. 150/2022 (le virgole presenti nella evocata disposizione non sono state, evidentemente, intese  quali segni che scandiscono le singole ipotesi in cui può essere dato accesso ai programmi riparativi), ma è tale da generare, altresì, un'insuperabile aporia all'interno della norma stessa, laddove la sua prima parte consentirebbe, appunto, l'accesso alla GR “in ogni stato e grado del procedimento penale”, mentre la seconda ne vieterebbe invece, contraddittoriamente, lo svolgimento nella fase esecutiva per il soggetto detenuto o sottoposto a misura di sicurezza. Al contrario, come emerge anche dalla relazione del Massimario, la norma, nella prospettiva del più ampio accesso alla giustizia ripativa, intende favorire l'accesso alla restorative justice non solo nel corso della fase esecutiva ma anche successivamente alla conclusione della vicenda penale. 

Le conseguenze più gravi si colgono sul piano sistematico: a seguire l'interpretazione adottata dalla Cassazione, infatti, si renderebbero prive di senso le disposizioni introdotte dalla riforma Cartabia (art. 78 d.lgs. n. 150/2022) proprio per favorire lo sviluppo della GR nella fase di esecuzione della pena e proprio in favore dei condannati detenuti e internati.

Le possibili frizioni di sistema con la disciplina dell'esecuzione penale

I timori per le possibili faglie di contrasto tra la disciplina organica in materia di giustizia riparativa e i princìpi che sovraintendono l'esecuzione penale coinvolgono, in pressoché ugual misura, la posizione del condannato e quella della vittima.

Con riguardo ai primi, autorevole dottrina ha osservato che «La mediazione, invece, suppone implicitamente che l'accusato sia colpevole o si dichiari tale fuori del processo: in segreto, certamente, ma tutto ciò è immanente, coessenziale al percorso mediativo. La riforma Cartabia non esige nessuna confessione, ma la suppone come implicita nella mediazione. Dunque, la mediazione è destinata a imputati che non sono innocenti o che non si dichiarano innocenti nel processo. È una incompatibilità di presupposti, anche se non giuridica, quella che riguarda la presunzione di innocenza e la mediazione.» (Donini).

Lo stesso decreto legislativo n.150/2022 ricollega l'esito riparativo al «riconoscimento reciproco» e alla «possibilità di ricostruire i legami tra i partecipanti», senza dimenticare che fra gli scopi della giustizia riparativa sono richiamati «il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell'offesa» (art. 43, comma 2, d.lgs. n. 150/2022), concetti che sembrano sottendere un pieno accertamento di responsabilità.

Per tale ragione, in alcuni ordinamenti europei (es. Spagna, la Ley 4/2015) si prevede espressamente tra i pre-requisiti per lo svolgimento del programma riparativo che l'imputato abbia riconosciuto i fatti essenziali dai quali dipende la sua responsabilità penale.

Si tratta di uno dei punti cruciali dell'intersezione tra giustizia riparativa e processo penale: se da un punto di vista logico è evidente che per procedere a una mediazione il presupposto è rappresentato dalla disponibilità - quantomeno - a riconoscere la propria non estraneità ai fatti da parte dell'autore, da un punto di vista delle garanzie processuali si pone il problema del possibile attrito con la presunzione di non colpevolezza. Per questo motivo, l'ordinamento spagnolo gioca – per così dire - a carte scoperte: la GR è per i colpevoli che nell'ambito di una consapevole strategia processuale scelgono di ammettere i fatti e “giocarsi la carta” della restorative justice.

La scelta operata con la riforma Cartabia è stata diversa, e da qui nascono, in qualche misura, i problemi. Nella nostra disciplina, infatti, il riconoscimento dei fatti è traslato alla fase mediativa, dove sarà, appunto, il mediatore a valutare la fattibilità del programma alla luce dell'atteggiamento dell'autore in relazione ai fatti salienti della vicenda.

Nella fase esecutiva è espressamente favorito questo possibile sviluppo, attraverso la disposizione del regolamento di esecuzione penitenziaria che promuove la revisione critica da parte dell'autore di reato (art. 27 reg. esec.), il cui primo passo è, appunto, il riconoscimento dei fatti e la consapevolezza del loro disvalore, mentre solo in un secondo momento si porrà il problema della assunzione di responsabilità in rapporto a tali fatti e in ultimo si arriverà eventualmente all'atteggiamento critico nei confronti dei propri agìti.

Precisamente, l'art. 27 del regolamento esecutivo dell'O.P. (d.p.r. n. 230/2000), al primo comma, ultimo periodo, prevede che: «sulla base dei dati giudiziari acquisiti, viene espletata, con il condannato o l'internato, una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l'interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa». E questa “riflessione” è inquadrata nell'“osservazione della personalità” sulla base dei cui risultati sono formulate “indicazioni in merito al trattamento rieducativo” (art.13 OP).

Quanto al secondo ordine di timori, essi si concentrano attorno alla posizione della vittima a fronte della disciplina dell'esecuzione esecuzione penale, tuttora saldamente ispirata alla concezione reocentrica.

Come si è già osservato, il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell'offesa, ricostituzione dei legami con la comunità sono le mete verso cui l'art. 43, comma 2 d.lgs. n. 150/2022 chiede di orientare la rotta riparativa sono gli obiettivi della GR ma anche, di fatto, l'obiettivo dell'esecuzione penale costituzionalmente orientata (Bonini).

Nella fase dell'esecuzione, però, tutto è orientato sulla figura del reo, condannato o internato, e la vittima resta sullo sfondo, laddove dal punto di vista delle fonti europee ci viene detto, invece, che la GR dovrebbe essere agìta anche nell'interesse della vittima e delle esigenze a quest'ultima riconducibili, anche e soprattutto quelle che il processo penale non può strutturalmente soddisfare.

Questa chiara ottica reocentrica si accompagna, nel momento esecutivo, al dato che tale fase si colloca, perlopiù, in un tempo ormai lontano dal fatto criminoso, dunque appare più rilevante il pericolo di vittimizzazione secondaria. La disciplina di accesso ai benefici penitenziari accresce oggettivamente, inoltre, il rischio di strumentalizzazione della vittima, segnatamente alla luce delle estese premialità riconosciute al (solo) autore di reato che chieda la giustizia riparativa, il quale può persino prescindere dalla vittima effettiva, ricorrendo a quella surrogata.

Sui pericoli dell'uso strumentale delle vittime è intervenuta la anche giurisprudenza di legittimità per censurare la scelta di utilizzare percorsi mediativi con vittime cd. a-specifiche o “surrogate” (Cass. pen, sez. I, 23 marzo 2021, n. 19818, Vallanzasca).

In dottrina si è segnalata la tendenza della prassi a ricorrere a “scorciatoie riparatorie” valorizzando soprattutto l'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale affinché l'affidato “si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato…” (art. 47 ord. penit.). «Si è parlato di scorciatoie perché di fronte a misure alternative spesso svuotate di contenuto, soprattutto durante la stagione di “tangentopoli”, sono stati adottati dei criteri ispirati – più che ai principi della giustizia riparativa – alla legge del contrappasso o rivolti a valutazioni della resipiscenza del condannato o della consistenza del risarcimento. Queste osservazioni potrebbero essere utili soprattutto per evitare che la riparazione si traduca in una mera apparenza o in un rapporto contrattualistico ispirato ad una logica sinallagmatica del “do ut des” dove il percorso di mediazione è ridotto a pratica burocratica strumentalmente finalizzato alla positiva “chiusura della pratica» (Bouchard).

In conclusione

Se l'incontro tra vittima e accusato non si presenta facile nel processo di cognizione esso appare altresì problematico durante l'esecuzione della pena anche perché in quella fase la persona offesa è davvero ai margini della giurisdizione.

Inoltre nella fase esecutiva è ancora più forte la tensione tra interessi della vittima e interessi del condannato. Mentre nella cognizione si trattava di rispettare le garanzie dell'accusato, qui è in gioco la finalità rieducativa e di recupero sociale. Infatti tra i magistrati di sorveglianza è molto diffuso il timore che le istanze degli offesi possano incidere sul pieno sviluppo degli obiettivi di rieducazione e recupero sociale.

Chiedere di volgere lo sguardo verso la vittima è, oltretutto, piuttosto complicato quando il detenuto è a sua volta vittima di svariate forme di abuso di potere o quando versa in situazioni soggettive di particolare vulnerabilità (madri di figli minori, anziani, malati gravi, immigrati a loro volta vittimizzati nel percorso migratorio).

Il rischio evidenziato dagli operatori concerne la tendenza, in linea generale, a considerare la vittima in modo strumentale al conseguimento di benefici penitenziari per il condannato attraverso l'offerta volontaria ma non spontanea, di dazioni prestazionali al fine di lucrare le premialità che l'ordinamento riconosce. A titolo esemplificativo, si ricordano: l'adempimento delle obbligazioni civili per la riabilitazione; il ravvedimento dimostrabile attraverso l'attivazione a favore della vittima ai fini della liberazione anticipata; l'offerta al detenuto dell'opportunità di una riflessione sulle conseguenze patite dalla vittima e sulle possibili azioni di riparazione durante l'osservazione prevista dall'ordinamento penitenziario in vista dell'accesso ai benefici extramurari; le vaste premialità connesse alla partecipazione ai programmi di GR ai fini dell'accesso alle misure alternative; le iniziative di GR al fine del superamento dell'ostatività relativa alla concessione dei benefici penitenziari alla luce della disciplina introdotta dal d.l. n. 162/2022.

Riferimenti

  • Bartoli R., Complementarietà, innesto e rientro nella disciplina della giustizia riparativa, in Sist. pen., 12.03.2025;
  • Bonini V., Giustizia riparativa e garanzie nelle architetture del d.lgs. 150/2022, in Sist. pen., 23.11.2023;
  • Bouchard M., Cura e giustizia dell'offesa ingiusta: riflessioni sulla riparazione, in questionegiustizia.it, 1° ottobre 2022;
  • Daraio G., Il complicato innesto del paradigma riparativo nel sistema processuale penale tra ritardi organizzativi, nodi interpretativi e resistenze culturali, in Dir. pen. proc., 1/2025, 103 ss.;
  • Donini M., Paradigma vittimario e idea riparativa. criteri di orientamento in una potenziale contraddizione di sistema, in Dir. difesa, 16 luglio 2024;
  • Fiorentin F. – Bouchard M., La giustizia riparativa, Giuffrè Francis Lefebvre, 2024;
  • Mannozzi G., A ciascuno il suo dubbio: reo, vittima, pubblico ministero e giudice, in Quaderno di storia del penale e della giustizia, n. 2 (2020), pp. 253-282;
  • Mattevi E., La giustizia riparativa: disciplina organica e nuove intersezioni con il sistema penale, in (a cura di) D. Castronuovo, M. Donini, E.M. Mancuso, G. Varraso, Riforma Cartabia: la nuova giustizia penale, Milano, 2023;
  • Pisconti A., La restorative justice nel sistema della giustizia penale spagnola: peculiarità a confronto con il sistema italiano, in Sist. pen., 21.10.2024;
  • Viganò F., Verità e giustizia riparativa, relazione al 73° Convegno Nazionale di Studi dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, Quid est Veritas? La dialettica verità-certezza nell'esperienza giuridica, svoltosi a Catania dal 24 al 26 novembre 2023.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario