Morte del paziente per infezione nosocomiale: azione iure proprio dei congiunti e onere della prova. La Cassazione torna alla regola “res ipsa loquitur”?

Daniela Zorzit
19 Maggio 2025

Risarcimento danni subiti in conseguenza di un'infezione nosocomiale: la prova della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale della struttura sanitaria, che grava sul soggetto danneggiato, può essere fornita con il ricorso alle presunzioni semplici?

Massima

In tema di risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un'infezione contratta in ambiente ospedaliero, la prova della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi (compreso quello soggettivo) della responsabilità - nella specie di natura extracontrattuale - della struttura sanitaria, che grava sul soggetto danneggiato, può essere fornita, in ossequio al principio della vicinanza della prova, anche con il ricorso alle presunzioni semplici, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione relativa all'adozione di tutte le misure utili alla prevenzione del contagio. (Fattispecie in tema di danni patiti iure proprio dai congiunti della paziente defunta in conseguenza dell'infezione correlata all'assistenza).

Il caso

I signori A, B e C chiedono all'azienda ospedaliera il risarcimento dei danni patiti iure proprio (e iure hereditario) in conseguenza del decesso della propria congiunta, avvenuto durante il ricovero per shock settico dovuto ad infezione da “Klebsiella Pneumoniae”.

All'esito della CTU, il Tribunale accerta l'origine nosocomiale dell'infezione (per tempi, modalità di insorgenza e caratteristiche di antibiotico -resistenza del germe) ed accoglie le pretese, ritenendo di dover qualificare la responsabilità della struttura come contrattuale anche in relazione al pregiudizio da perdita del rapporto parentale.

La Corte d'appello, in parziale riforma della decisione, respinge la domanda iure proprio dei famigliari in ragione dei seguenti rilievi:

  1. l'azione proposta doveva essere ricondotta entro l'alveo dell'art. 2043 c.c.;
  2. spettava pertanto agli attori dimostrare «che le procedure adottate non fossero state in concreto idonee a prevenire il contagio per negligenza, imprudenza o imperizia del personale sanitario o per una carenza organizzativa»;
  3. posto che si trattava di una fattispecie di illecito aquiliano, «non erano applicabili le presunzioni tipiche della responsabilità contrattuale e non poteva invocarsi il principio di vicinanza della prova»;
  4. non era stata dimostrata la «violazione di alcuna norma precauzionale, come i protocolli di prevenzione dell'infezione», o «una condotta comunque negligente o imprudente del personale idonea a favorire il contagio».

I sigg.ri A, B e C si rivolgono alla Cassazione censurando la sentenza sotto diversi profili, tra i quali assumono rilievo – per quanto qui interessa -  :

  1. la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 c.c. per avere il Giudice d'appello escluso che la prova della colpa della struttura potesse fondarsi su “presunzioni semplici” – tratte dagli elementi emersi all'esito dell'istruttoria di primo grado e ritenuti validi per l'affermazione della responsabilità contrattuale;
  2. la violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 c.c. e 24 Cost. per avere la Corte territoriale erroneamente negato che nell'ambito dell'illecito aquiliano si potesse fare applicazione del criterio della vicinanza alla prova ai fini dell'accertamento dell'(in)osservanza, da parte della struttura sanitaria, delle norme e dei regolamenti che presiedono alla sicurezza delle cure.

Il Supremo Collegio accoglie entrambi i motivi; ma le argomentazioni poste a fondamento del decisum rivelano, a parere di chi scrive, qualche ombra.

La questione

  1. La domanda di risarcimento del danno proposta iure proprio dai congiunti di un paziente deceduto per effetto di malpractice ricade nell'art. 2043 c.c. o nell'art. 1218 c.c.?
  2. Come si atteggia il riparto degli oneri probatori nei casi di infezioni nosocomiali? L'applicazione dell'art. 2043 cc. comporta esiti differenti rispetto alla disciplina dettata dall'art. 1218 cc.?
  3. Le presunzioni giurisprudenziali vengono impiegate come rimedio per agevolare la parte “debole” o in posizione di “asimmetria informativa”?

Le soluzioni giuridiche

a) La domanda proposta iure proprio dai congiunti del paziente deceduto si inscrive nell'art. 2043 cc.

La Cassazione non si dilunga sul punto, ma si limita a richiamare il precedente di Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2023, n. 6386, che è conforme all'orientamento oggi consolidato : «(..) il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico non produce, di regola, effetti protettivi in favore dei terzi, perché, fatta eccezione per il circoscritto campo delle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione, trova applicazione il principio generale di cui all'art. 1372, comma 2, c.c., con la conseguenza che l'autonoma pretesa risarcitoria vantata dai congiunti del paziente per i danni ad essi derivati dall'inadempimento dell'obbligazione sanitaria, rilevante nei loro confronti come illecito aquiliano, si colloca nell'ambito della responsabilità extracontrattuale (da ultimo, Cass. n. 11320 del 2022; v. anche Cass. n. 21404 del 2021)».

Non poteva dunque ritenersi corretta la decisione del Giudice di prime cure, laddove aveva ricondotto la domanda di risarcimento del danno patito iure proprio dai congiunti entro l'ambito di applicazione dell'art. 1218 cc.

b) Il riparto degli oneri in caso di infezioni nosocomiali.

La Corte richiama anzitutto il noto precedente di Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2023, n. 6386 (che ha definito, in tredici punti, il vademecum a cui la struttura sanitaria dovrebbe attenersi per dimostrare di aver correttamente operato), e dichiara di «voler ribadire tali principi», seppure con l'aggiunta di alcune «precisazioni». Tra queste, spicca la seguente: «Non è in dubbio che la prova della responsabilità aquiliana della struttura sanitaria debba essere fornita dal danneggiato, in applicazione (indiscussa) del combinato disposto degli artt. 2697 e 2043 c.c., essendo quest'ultima disposizione ad indicare gli elementi costitutivi della fattispecie sui quali la prova stessa, gravante su chi agisce per il risarcimento del danno (art. 2697 cc.) deve vertere: condotta del danneggiante, evento dannoso, nesso causale tra condotta ed evento, e, infine, colpa o dolo dello stesso danneggiante».

Questo “chiarimento” appare di grande importanza perché fa luce su un punto che era rimasto oscuro. In effetti, Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2023, n. 6386 aveva enunciato una regola che pareva incompatibile con la fattispecie oggetto di esame.

In quel caso, a venire in linea di conto era una domanda di risarcimento del danno proposta iure proprio dai famigliari di una paziente deceduta; e non vi era dubbio che essa dovesse inscriversi entro le coordinate dell'art. 2043 cc.

Nel motivare il decisum, la Corte aveva fatto riferimento alla responsabilità contrattuale, concludendo (in aderenza ai principi di “San Martino-bis”) che «alla struttura sanitaria compete la prova di aver adempiuto esattamente la prestazione (..)» e, quindi, di aver posto in essere una serie di specifiche attività (indicate dal Collegio stesso in un apposito “elenco”, per come si è detto supra).

A rigore, tuttavia, dato che si trattava (pacificamente) di un illecito aquiliano, sarebbe stato naturale attendersi una soluzione di segno contrario (i congiunti avrebbero dovuto dimostrare le negligenze/ inefficienze della casa di cura).

Ebbene, è forse per porre rimedio a questa “incongruenza” che Cass. civ., sez. III, 30 dicembre 2024, n. 35062 ha sottolineato a chiare lettere che, in caso di perdita del rapporto parentale, spetta al danneggiato che agisce iure proprio provare la colpa della struttura.

Va detto, peraltro, che nello sviluppo della motivazione questa affermazione di principio perde progressivamente vigore, tanto da essere quasi relegata sullo sfondo, come una fotografia sbiadita dimenticata alla parete, a raccontare ciò che non è più.

Osservazioni

I termini del problema.

Con uno sforzo di sintesi, si può tentare di descrivere l'essenza del problema in pochi passaggi:

  • per un verso, la Corte d'Appello aveva confermato l'esistenza del collegamento causale, nel senso che aveva accertato che l'infezione era stata contratta in ospedale. Facendo applicazione dell'art. 2729 cc., il Giudice aveva dato peso ad una serie di elementi indiziari favorevoli, da cui poteva ragionevolmente dedursi che l'ipotesi della origine nosocomiale era “più probabile” di quella contraria (paziente già malata al domicilio): invero, nella stessa struttura, i casi di “Klebsiella” complessivamente verificatisi erano stati 23 nel 2013 e 24 nel 2014 e la donna, poco tempo prima dell'evento mortale, aveva effettuato frequenti e plurimi accessi in ospedale (per sottoporsi a dialisi); il CTU aveva altresì escluso una qualche incidenza delle preesistenti comorbilità.
  • d'altro canto, tuttavia, il Collegio di merito aveva negato che potesse dirsi dimostrato l'altro elemento richiesto dall'art. 2043 c.c., cioè la condotta negligente o imperita della AUSL: l'accertamento del nesso tra contagio e ricovero non era, da solo, sufficiente, poiché nulla diceva della colpa della struttura, che andava autonomamente provata.

L'ordinanza in commento ha ribaltato l'esito della lite: in sostanza, secondo la Cassazione il solo fatto che l'infezione fosse insorta all'interno dell'ospedale consentiva di fondare una presunzione di inadeguatezza/inefficienza delle misure di prevenzione a cui la casa di cura era tenuta.  

A parere di chi scrive, sono due i profili chiave intorno ai quali ruota il decisum:

  1. il primo “punto di appoggio” è costituito dal richiamo al precedente di Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 582, secondo cui «la prova del nesso causale intercorrente tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV può essere fornita – ove risulti provata l'idoneità di tale condotta a provocare il contagio – anche con il ricorso alle presunzioni, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria della documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente»;
  2. il secondo argomento fa leva sulla critica mossa dai ricorrenti alla decisione impugnata: secondo la Cassazione, la Corte di appello ha errato quando ha «escluso (...) di poter fare riferimento alle presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. e, con esse, al principio di vicinanza alla prova al fine di valutare la sussistenza, o meno, della “colpa” della struttura»; il Giudicante avrebbe infatti dovuto “valorizzare” «gli “stessi fatti noti” che avevano già circostanziato la dimostrazione della derivazione nosocomiale del contagio: dato statistico significativo riguardante i casi di “klebsiella” verificatisi proprio presso l'Ospedale dell'Angelo; frequenti accessi in ospedale della paziente per dialisi; accesso della paziente in ospedale proprio in prossimità dell'epoca del decesso; non rilevanza della situazione di comorbilità e fragilità della paziente».

Lo snodo argomentativo sembra dunque seguire questo filo: la “mancanza di documentazione” (che la struttura avrebbe dovuto predisporre o produrre) autorizza il Giudice a far uso delle presunzioni semplici; e dunque, dal fatto noto “l'infezione è stata contratta in ospedale” è possibile dedurre che la casa di cura abbia tenuto una condotta negligente, non abbia fatto cioè quanto avrebbe dovuto per prevenire e scongiurare il contagio da “klebsiella”.

In relazione al punto 1), si possono formulare alcune osservazioni critiche.

La prima è che il principio enunciato da Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 582 riguardava la prova del nesso causale e non della colpa, che è invece il thema oggetto della vertenza sottoposta a Cass. civ., sez. III, 30 dicembre 2024, n. 35062: già solo questa “estensione” parrebbe discutibile perché va oltre il perimetro della regola presa a riferimento.

La seconda è che la fattispecie sottoposta a Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 582 era ben diversa: in quel caso si trattava di un soggetto che aveva scoperto di avere l'epatite dopo essere stato sottoposto a trasfusioni (eseguite entro un breve intervallo di tempo presso due distinte strutture). La domanda (proposta ai sensi dell'art. 2050 c.c.) era stata rigettata dai giudici di merito perché, pur essendo certo che prima del ricovero il paziente non aveva il virus, non era stato tuttavia provato presso quale delle due case di cura fosse avvenuto il contagio. Ma il punctum saliens era costituito dal fatto che la cartella clinica non conteneva i dati (obbligatori per legge) relativi alla tracciabilità del sangue; il che rendeva di fatto impossibile, per l'attore, assolvere il proprio onere.

Esigenze di giustizia si ponevano dunque a fondamento del principio enunciato, poiché pareva del tutto iniquo rigettare la domanda se la prova, a carico del danneggiato, era mancata a causa di un comportamento ascrivibile alla controparte.

Nella vicenda esaminata da Cass. civ., sez. III, 30 dicembre 2024, n. 35062 non si fa, invece, questione di incompletezza della cartella clinica, né risulta (sulla base di quanto si può evincere dalla lettura della decisione) che i congiunti avessero chiesto (per es. attraverso l'istituto dell'accesso agli atti di cui all'art. 24, l. n. 241/1990 o eventualmente con istanza ex art. 210 c.p.c.)  la “documentazione” utile a dare evidenza della colpa della struttura. Si fatica, insomma, a comprendere perché i due casi sarebbero sovrapponibili, tanto da giustificare l'applicazione della medesima regola.

Si consideri altresì – e questo è un ulteriore profilo che induce a sollevare qualche perplessità sulla decisione in commento – che, secondo la stessa giurisprudenza di legittimità, il criterio di vicinanza della prova (a cui Cass. civ., sez. III, 30 dicembre 2024, n. 35062 ha fatto riferimento) «non può operare allorquando l'interessato abbia la possibilità, secondo le regole di cui al diritto di accesso agli atti della P.A. o eventualmente sulla base degli strumenti processuali a tal fine predisposti dall'ordinamento, di acquisire la documentazione necessaria a suffragare le proprie ragioni (..)» (Cass. civ., sez. lav., 24 giugno 2020 n. 12490).

L'impressione, allora, è che la Cassazione abbia seguito un ragionamento di questo tipo: poiché la casa di cura non ha dimostrato, attraverso le opportune produzioni, (ndr. ma non era suo onere farlo dato che si applica l'art. 2043 c.c.!), di aver eseguito le attività di prevenzione necessarie, allora ben si può presumere che essa non le abbia compiute.

Del resto, leggendo l'ordinanza, non sfugge un “particolare”: al punto 6.2.3. la Corte “rammenta” che il Tribunale, avendo (erroneamente) inquadrato la responsabilità dell'ospedale per il danno parentale nell'art. 1218 c.c., aveva accolto la domanda perché «l'AULSS non era stata in grado di provare che le procedure per evitare il contagio fossero state sempre scrupolosamente rispettate».

Viene allora il sospetto che, dietro alla motivazione, si nasconda un diverso filo logico, che si sviluppa in questi termini: il fatto che la struttura non abbia dimostrato (nel perimetro dell'azione iure hereditatis, ex art. 1218 cc.) di avere pedissequamente rispettato le buone prassi, costituisce indizio da cui desumere la sua negligenza anche nel diverso ambito dell'illecito aquiliano.

Ma, se davvero fosse questa la ratio di fondo, la norma finirebbe con l'essere aggirata: nella logica dell'art. 2043 c.c., il fatto che il convenuto non dimostri di essersi attenuto alle leges artis (non essendo suo onere farlo) non può diventare “prova” della colpa e, a seguire, del collegamento con l'evento.

La difficoltà della prova per i congiunti che agiscono ex art. 2043 c.c.  

La Cassazione sembra dunque muoversi nell'ottica del favor per i famigliari danneggiati; e lo fa perché – a suo stesso dire - la prova della colpa, nella logica dell'art. 2043 c.c., «non è agevole da fornire (..) giacché è la struttura sanitaria a dover assolvere all'obbligo di predisporre tutte le misure utili alla prevenzione delle infezioni nosocomiali e sono nella disponibilità esclusiva della struttura sanitaria i relativi dati che ne documentano l'adempimento».

Questo profilo è stato evidenziato anche da autorevole dottrina (R. Pucella, L'irrisolta questione delle infezioni nosocomiali, in Responsabilità medica 2023, n. 1), secondo la quale, ponendo a carico dei congiunti un onere di fatto molto gravoso, si rischia di garantire all'ospedale una sorta di impunità proprio nei casi più gravi (in cui appunto è intervenuto il decesso).

Si potrebbe peraltro provare a ragionare in un'ottica diversa, prendendo spunto dal fatto che – nel quadro della l. n. 24/2017 e del DM n. 232/2023 – le strutture hanno un obbligo giuridico di dotarsi di “funzioni” e processi per il monitoraggio ed il controllo del rischio e sono espressamente tenute, ai sensi dell'art. 2, l. n. 24/2017 (che ha integrato l'art.1, comma 539, l. n. 208/2015) a curare la «predisposizione di una relazione annuale consuntiva sugli eventi avversi verificatisi all'interno della struttura, sulle cause che hanno prodotto l'evento avverso e sulle conseguenti iniziative messe in atto. Detta relazione è pubblicata nel sito internet della struttura sanitaria».

Esse inoltre, ai sensi dell'art. 17, DM n. 232/2023 devono identificare «annualmente i principali rischi di responsabilità civile in ambito sanitario cui la stessa è esposta e le azioni necessarie per la loro mitigazione senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica» ed elaborare «una relazione annuale sull'adeguatezza ed efficacia dei processi di valutazione dei rischi, sul raffronto tra le valutazioni effettuate e i risultati emersi, nonché sulle criticità riscontrate, proponendo i necessari interventi migliorativi».

E si pensi anche al disposto dell'art. 4, l. n. 24/2017, a mente del quale «familiari o gli altri aventi titolo del deceduto possono concordare con il direttore sanitario o sociosanitario l'esecuzione del riscontro diagnostico, sia nel caso di decesso ospedaliero che in altro luogo, e possono disporre la presenza di un medico di loro fiducia».

Viene allora spontaneo pensare che oggi il paziente vanti un vero e proprio diritto alla disclosure (e quindi non sia poi così in “difficoltà” nell'assolvere il proprio onere ex art. 2043 cc.), potendo avvalersi per es. dell'istituto dell'accesso agli atti ex art. 24, l. n. 241/1990, oppure dell'ordine di esibizione ex artt. 210 - 213 c.p.c. al fine di ottenere la sopra indicata documentazione e verificare quali attività siano state in concreto svolte per la prevenzione delle infezioni.

E dall'ingiustificato rifiuto o dalla omissione (quando cioè i previsti rapporti non siano stati neppure redatti) il Giudice ben potrebbe, in applicazione dell'art. 210 c.p.c., desumere argomenti di prova ex art. 116, comma 2, c.p.c.

La questione interseca peraltro quella della interpretazione dell'art. 16, l. n. 24/2017 (che ha integrato l'art. 1, comma 539, l. n. 208/2015), secondo cui «I verbali e gli atti conseguenti all'attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell'ambito di procedimenti giudiziari».

La norma si inserisce nel quadro delle disposizioni finalizzate a meglio garantire il raggiungimento degli obiettivi presi di mira dall'art. 1, l. n. 24/2017 e sembra costituire traduzione ed attuazione del monito espresso dal Consiglio d'Europa nella Raccomandazione n. 2009/C151/ 01, che indicava «l'inserimento della sicurezza dei pazienti tra i temi prioritari nelle politiche e nei programmi sanitari a livello nazionale, regionale e locale». Ciò muovendo da un cospicuo “retroterra” di studi ed acquisizioni scientifiche, che davano chiara ed allarmante evidenza della entità degli eventi avversi in sanità e della concreta possibilità di impedirli, con particolare riguardo alle infezioni (Raccomandazione del Consiglio d'Europa 2009/C151/01 del 9 giugno 2009 sulla sicurezza dei pazienti, comprese la prevenzione e il controllo delle infezioni associate all'assistenza sanitaria in europarl.europa.eu; il “Considerando” n. 4 si apre così: «La scarsa sicurezza dei pazienti rappresenta un grave problema per la sanità  pubblica ed un elevato onere economico per le scarse risorse sanitarie disponibili. Gli eventi sfavorevoli, sia nel settore ospedaliero che in quello delle cure primarie, sono in larga misura prevenibili e la maggior parte di essi sono riconducibili a fattori sistemici».)

La l. n. 24/2017 abbandona la logica della blame culture, ossia della “colpevolizzazione a tutti i costi”, ed inverte la rotta (spostando lo sguardo dal danno al modo per evitarlo) ponendo al centro la prevenzione.

L'art. 16 si spiega allora, verosimilmente, in considerazione del fatto che per scongiurare il ripetersi degli errori o, comunque, per porre rimedio ai deficit organizzativi, occorre prima “farli emergere”; a tal fine è necessario che gli operatori si sentano “liberi” di parlarne, senza il timore di subire “ritorsioni” (ossia senza la paura che ciò che diranno potrà un domani essere utilizzato contro di loro).

Ciò in accordo con quanto previsto dalla già citata Raccomandazione 2009/C151/01, diretta a «sostenere l'istituzione o il rafforzamento di sistemi di segnalazione e di apprendimento relativi agli eventi sfavorevoli, privi di carattere punitivo: a) che forniscano informazioni sulla portata, i tipi e le cause degli errori, degli eventi sfavorevoli e dei quasi – incidenti; b) che incoraggino il personale sanitario a segnalare attivamente gli eventi sfavorevoli, mediante un ambiente aperto, equo e non punitivo. Tale sistema di segnalazione dovrebbe essere differenziato dai sistemi disciplinari degli Stati membri e dalle procedure relative al personale sanitario e, se del caso, le implicazioni giuridiche relative alla responsabilità del personale sanitario andrebbero chiarite».

L'art. 16, l. n. 24/2017 è peraltro già finito sotto la lente della giurisprudenza amministrativa, che si è occupata del problema della ostensibilità delle perizie medico-legali formate nell'ambito del Comitato di Valutazione Sinistri (CVS); la posizione espressa dal Consiglio di Stato sembrerebbe piuttosto “aperta”, nel senso di consentire, a certe condizioni, l'accesso a tali atti ex art. 24, l. n. 241/1990 (Cons. Stato, sez. III, 31 gennaio 2020, n. 808, in IUS Responsabilità civile con nota di G. Chiriatti, RC Sanitaria: l'accesso agli atti del Comitato Valutazione Sinistri (CVS), 18 marzo 2020; più di recente, si veda Cons. Stato, sez. III, 9 settembre 2022, n. 7874, secondo cui «L‘art. 16, l. n. 24/2017 sancisce poi che i verbali e gli atti conseguenti all'attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell'ambito dei procedimenti giudiziari; ebbene, anche a sostenere che i verbali riguardanti l'attività di gestione del rischio clinico siano sottratti all'accesso al fine di essere utilizzati in procedimenti giudiziari, non si può giungere ad equiparare la relazione - perizia medico-legale interna, istruita a seguito di richiesta danni, ad un atto conseguente all'attività di gestione del rischio clinico»). 

In ogni caso, sembra a chi scrive che l'art. 16 debba essere letto e coordinato con le altre disposizioni contenute nella l. n. 24/2017. Pare allora difficile sostenere che il paziente non possa, per es., produrre in giudizio la (o comunque richiedere l'esibizione della) relazione di cui all'art. 2, l. n. 24/2017 (sugli eventi avversi, sulle cause e sulle misure poste in atto per scongiurarne la ripetizione), dato che si tratta di un documento per il quale è addirittura previsto l'obbligo di pubblicazione sul sito internet della struttura.

Non è allora forse azzardato sostenere che gli atti e i verbali di cui è preclusa la produzione in giudizio siano quelli contenenti valutazioni ed accertamenti “interni” relativi alla “emersione” dei problemi (documenti che raccolgono le segnalazioni fatte dagli esercenti con riguardo per es. ad un malfunzionamento, a inefficienze, a potenziali rischi, ai cd. near misses o “quasi incidenti” ecc.) e ipotizzare che il divieto non copra, invece, le attività che la struttura ha programmato e posto in essere (in generale) per garantire la sicurezza (e quindi per es. come abbia organizzato la funzione di prevenzione delle infezioni, quali sano gli organismi preposti alla vigilanza, cosa in concreto abbia fatto da un anno all'altro per scongiurare il ripetersi del fenomeno ecc.).

Certo, si tratterà di vedere come la giurisprudenza interpreterà la norma, ma sembra potersi affermare che oggi il rapporto paziente/ospedale sia improntato ad una maggiore trasparenza (ex art. 4, l. n. 24/2017): in questo contesto l'onere ex art. 2043 c.c. (per i congiunti che agiscano iure proprio) potrebbe quindi risultare meno gravoso.

La Cassazione recupera la regola res ipsa loquitur?

Tornando ai “termini del problema”, si è visto come, in relazione al punto 1, la Cassazione abbia fatto leva sulla “mancanza di documentazione”, per concludere che l'omessa produzione da parte della struttura consente di far ricorso al meccanismo di cui agli artt. 2729 c.c.

Venendo ora al profilo sub 2), la Corte ha insistito sul fatto che nella specie doveva ritenersi accertata l'origine nosocomiale dell'infezione (criterio temporale, frequenti accessi della paziente presso il nosocomio, entità dei casi di “klebsiella” verificatisi negli anni precedenti nella stessa AUSL): detti “elementi” vengono quindi posti a fondamento della “presunzione” circa la sussistenza della condotta colposa dell'ospedale.

E questa, in verità, sembra una applicazione della regola res ipsa loquitur, come a dire che i fatti parlano da sé: «posto che il germe patogeno ha colonizzato la paziente all'interno della struttura, ciò significa automaticamente che quest'ultima non ha adottato le misure idonee a prevenirla».

In realtà, se si muove dal presupposto che le infezioni non sono “azzerabili”, ma solo riducibili, e che possono quindi avere luogo nonostante l'adozione delle corrette prassi di controllo e sanificazione, il “sillogismo” costruito dalla Corte appare criticabile. Il solo fatto che siano state contratte all'interno dell'ospedale non ne prova la colpa.  

Ben può essere che la casa di cura si sia scrupolosamente attenuta alle regole tecniche ed alle raccomandazioni validate a livello scientifico: in tal caso, se l'evento si è egualmente verificato, ciò significa che esso rientra nel novero di quella percentuale che non è, obiettivamente, eliminabile.

La Cassazione pare quindi aver fatto ricorso a quelle che la dottrina ha definito come “presunzioni giurisprudenziali” – tra le quali è ricondotto anche il criterio della res ipsa loquitur –: si tratta di “regole” ad hoc che nulla hanno a che vedere con l'istituto disciplinato dall'art. 2727 c.c., in quanto non basate su indizi (tratti dall'esame della fattispecie concreta) gravi, precisi e concordanti (per una analisi critica si veda M. Faccioli, Presunzioni giurisprudenziali e responsabilità sanitaria in Contratto e Impresa, 2014,1, 79, il quale rileva: «Con l'espressione “presunzioni giurisprudenziali” viene indicato il fenomeno consistente nella creazione, da parte della giurisprudenza, di regole di ripartizione dell'onere della prova, per l'appunto generalmente formulate sotto la veste di presunzioni iuris tantum, che non trovano, in realtà, riscontro nell'ordinamento positivo e che vanno a distribuire gli oneri probatori fra le parti in maniera differente da quanto risulterebbe dall'applicazione dei criteri previsti nell'art. 2697 c.c. e nelle altre norme in materia di onere della prova sparse nel sistema»).

In sostanza, «per effetto dell'alleggerimento dell'onere probatorio gravante sul paziente, il libero convincimento del giudice verrebbe in realtà a basarsi non già sul complesso degli indizi, gravi, precisi e concordanti, raccolti nel corso dell'istruttoria, bensì su regole statistiche che prendono il posto degli indizi nella formazione della decisione. In particolare, il meccanismo di attribuzione della responsabilità opera in ragione della appartenenza della fattispecie ad una classe più ampia di vicende, tutte contraddistinte dell'elevata probabilità di realizzazione dell'evento e che impediscono di prospettare una ricostruzione degli eventi più persuasiva se confrontata con quella allegata dalla vittima» (M. Gorgoni, Gli obblighi sanitari attraverso il prisma dell'onere della prova, in Resp. Civ. 2010, 669).

In giurisprudenza, tra le tante, si veda Cass. civ., sez. III, 19 maggio 1999, n. 4852, secondo cui il principio della res ipsa loquitur va «inteso come quell'evidenza circostanziale che crea una deduzione di negligenza».

Un ragionamento simile sembra dunque essere alla base della decisione in commento, come se fosse sottinteso un pensiero di questo tipo: «poiché in generale è noto che gli ospedali sono il luogo in cui è molto alto il rischio di contrarre infezioni, e dato che ciò non dovrebbe verificarsi perché l'adozione delle misure di prevenzione è in grado di ridurne l'incidenza, allora anche nel singolo caso di specie si deve ritenere che l'evento sia accaduto perché la struttura è stata negligente».

Il richiamo alla regola della vicinanza alla prova.

Nella motivazione di Cass. civ., sez. III, 30 dicembre 2024, n. 35062 sembra, infine, emergere una contraddizione. Al punto 6.2.2.1. la Corte, dopo aver sottolineato la difficoltà, per il danneggiato, di dimostrare la colpa dell'ospedale, richiama il «principio di vicinanza della prova, che permette al danneggiato di fornire la prova della responsabilità della struttura sanitaria in base alle presunzioni semplici, che potranno operare alla luce degli anzidetti criteri: temporale, topografico e clinico». 

Poche righe più avanti, tuttavia, il Collegio, nel riportarsi al decisum della già citata Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 582, ne conferma testualmente un passaggio, in cui si precisa che «a differenza della responsabilità sanitaria di tipo contrattuale (in cui il principio della vicinanza della prova è stato sovente utilizzato, dopo l'arresto di Cass. civ., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533), in ambito di responsabilità extracontrattuale, proprio per l'anzidetto combinato operare dell'art. 2697 e 2043 c.c. (che grava l'attore della dimostrazione degli elementi costitutivi della fattispecie), non può farsi riferimento direttamente al principio della vicinanza della prova per assumere che, se tale prova dell'esistenza o inesistenza del nesso causale [nella specie, della "colpa"] trovasi nella disponibilità esclusiva di una delle due parti, questa è onerata dal fornirla».

Dunque: la Cassazione afferma di poter utilizzare nel caso di specie (domanda ex art. 2043 cc.) una regola che, tuttavia - a suo stesso dire -, non è applicabile alla responsabilità aquiliana.

L'altra incongruenza risiede in ciò: usando il criterio della “vicinanza”, si dovrebbe dire che l'onere della prova grava sulla struttura sanitaria (che è più “prossima” alle circostanze oggetto di dimostrazione).

Cass. civ., sez. III, 30 dicembre 2024, n. 35062, invece, pur riferendosi al predetto principio, segue una strada diversa perché sottolinea che l'onere della prova resta in capo al danneggiato ex art. 2043 cc., salva la possibilità per lo stesso di avvalersi delle presunzioni.

Una volta chiarito che dalla natura nosocomiale dell'infezione era ben possibile dedurre, ex art. 2729 c.c., la colpa della struttura, il Supremo Collegio conclude che è in via di “prova contraria” che l'ospedale è chiamato a dimostrare di aver correttamente attuato le procedure di sanificazione e prevenzione.

In definitiva: la Cassazione, pur richiamandola, non fa, in realtà, applicazione della regola della vicinanza alla prova.

Conclusioni.

All'esito di queste riflessioni, si ha l'impressione che la Cassazione abbia voluto “agevolare” i danneggiati che agiscono iure proprio (per il danno parentale in caso di morte del proprio famigliare) attraverso l'uso di un espediente (res ipsa loquitur) che, in sostanza, finisce con lo spostare l'onere della prova sulla struttura. Ciò a dispetto dell'inquadramento della fattispecie entro le maglie dell'art. 2043 c.c.

Tale decisione può sollevare qualche perplessità perché va in direzione contraria rispetto alle coordinate tracciate dalla l. n. 24/2017 (animata dall'intento di contenere e limitare l'eccessivo favor verso il paziente mostrato dalla precedente giurisprudenza).

Del resto, si potrebbe anche sostenere che lo stesso art. 7, l. n. 24/2017 ha confermato che la pretesa dei congiunti iure proprio si colloca al di fuori del contratto e dell'art. 1218 cc.

Invero, da un lato, il comma 1 ha stabilito che la struttura risponde contrattualmente (ex artt. 12181228 c.c.) solo allorquando non abbia adempiuto la propria obbligazione (la quale sussiste solo tra le parti) e, dunque, non nei confronti di soggetti terzi, rispetto ai quali il titolo non può che essere l'art. 2043 cc.

Dall'altro, il comma 3 del medesimo art. 7 ha sancito la fine della teoria del “contatto sociale” e, con esso, degli “obblighi di protezione”. E se questi non esistono più (nel rapporto tra medico e paziente), non vi è a fortiori nessuna ragione per continuare a predicarne l'esistenza verso i famigliari del malato stesso.

Si potrebbe allora arrivare a dire che l'inversione dell'onere di fatto attuata da Cass. civ., sez. III, 30 dicembre 2024, n. 35062 si pone in contrasto con l'art. 7, l. n. 24/2017, che è norma imperativa, appunto perché comporta l'applicazione delle regole del contratto (la struttura deve provare di aver attuato le misure di prevenzione secondo le leges artis) ad una fattispecie che, però, non è più inscrivibile entro le coordinate dell'art. 1218 c.c.

È vero peraltro che il tema delle infezioni è molto peculiare, complesso e difficile, perché rappresenta terreno di incontro (e di contrapposizione) di istanze differenti.

Così, per un verso, il paziente ritiene giusto reclamare una protezione “incondizionata” per le conseguenze di un evento di cui non ha colpa, capitato per disavventura, per il semplice fatto di essersi trovato nella necessità di un ricovero in ospedale; d'altro canto, le strutture sanitarie sono preoccupate di fronte al rischio di una responsabilità sostanzialmente oggettiva, che le esporrebbe ad oneri troppo gravosi; e gli assicuratori sono a propria volta in allarme di fronte alla prospettiva di essere chiamati a farsi carico delle ripercussioni economiche di danni difficilmente prevenibili.

In linea generale, è chiaro che la massima tutela sarebbe garantita da un modello di responsabilità oggettiva (che spesso si avvale di “presunzioni giurisprudenziali” o di oneri “diabolici”), che fa ricadere sull'ospedale il costo del danno per il solo fatto che esso si è verificato al suo interno, indipendentemente dalla diligenza adoperata per evitarlo: l'ente pagherebbe praticamente sempre, salva la prova (non facile) del fortuito, inteso come fattore estraneo all'organizzazione d'impresa.

Ma questa prospettiva si presta a più critiche sia perché comporta seri problemi di “sostenibilità economica”, in un contesto (come quello pubblico) in cui i fondi non sono illimitati, sia perché non è per nulla incentivante (e dunque si corre il serio pericolo di continuare a guardare la “coda” del problema, senza risolverlo a monte perché tanto la casa di cura sarebbe sempre obbligata al risarcimento, a prescindere dallo sforzo profuso per “fare meglio”).

In una logica ancorata alla colpa e alla prevenzione – che è poi quella in cui si inscrive a pieno titolo la l. n. 24/2017 -, invece, la responsabilità dovrebbe essere esclusa allorquando si accerti una condotta conforme alle leges artis, e dunque quando la struttura – ove la domanda sia proposta ai sensi dell'art. 1218 cc. - dimostri di aver applicato misure (di profilassi, igiene, comportamentali, ecc.) indicate e raccomandate a livello scientifico. Ma qui si tratta di capire quali debbano essere i confini e i limiti di tale prova, onde evitare che essa si trasformi in un onere diabolico (ad es. allorquando si pretenda una registrazione capillare, a mezzo video, di tutte le singole fasi e attività in cui è stato coinvolto il soggetto ricoverato).

In ogni caso, bisognerebbe ragionare sulla opportunità/ necessità di introdurre un sistema di tipo indennitario, per evitare – specie nei casi più gravi – che il danno resti lì dove è caduto (allorquando non sia possibile formulare un giudizio di colpa in capo alla casa di cura). Ciò in applicazione di quel principio di solidarietà che dovrebbe forse condurre a riconoscere una protezione, seppur minima, anche per quegli “incidenti”, come le infezioni nosocomiali, che si siano verificati in occasione di ricovero nonostante l'adozione delle misure che erano esigibili per scongiurarli.

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