Diritti dei migranti, latitudine dell’attività di soccorso in mare dello “stato di primo contatto” e riverberi risarcitori
13 Maggio 2025
Massima In tema di responsabilità civile della P.A., il diniego di attracco e di sbarco di migranti non sono inquadrabili fra gli atti politici, costituendo atti amministrativi sindacabili dal Giudice ordinario; il trattenimento dei migranti a bordo di una nave della Guardia Costiera integro una violazione della loro libertà personale, con conseguente responsabilità dello Stato ai sensi dell'art. 2043 c.c.; il danno non patrimoniale è risarcibile anche senza prova specifica del danno conseguenza, in quanto la detenzione arbitraria lede la dignità umana. Il caso La vicenda oggi all'esame riporta all'attenzione, riattualizzandone tutte le delicate implicazioni, i vari profili connessi alle operazioni di soccorso in mare dei migranti, lambendo il tema del difficile equilibrio fra garanzia dei diritti dei migranti e l'interesse pubblico dello Stato a governare il fenomeno della migrazione. I fatti che hanno dato luogo al contenzioso giunto all'attenzione della Suprema Corte possono essere così compendiati: circa 170 migranti eritrei, soccorsi in mare attorno alla metà di agosto dell'anno 2018 da una nave della Guardia Costiera italiana (la U. Diciotti), furono indotti a permanere a bordo i primi quattro giorni in attesa del consenso dello Stato italiano all'attracco della nave nei porti italiani e i successivi sei giorni in attesa, nel porto di Catania, del consenso allo sbarco sulla terra ferma. I fatti surrichiamati hanno anche originato, in via parallela, un procedimento penale, arrestatosi a fronte della decisione del Parlamento di non concedere l'autorizzazione a procedere nei confronti dell'(allora) Ministro degli Interni per il reato di sequestro di persona, autorizzazione richiesta dal Tribunale dei Ministri di Catania, nonostante il parere difforme della locale Procura. I precedenti analoghi Detta vicenda può essere idealmente ricollegata ad altri casi in cui lo Stato italiano aveva impedito lo sbarco sul territorio nazionale di migranti soccorsi in mare, in attuazione di norme adottate tra gli anni 2018 e 2019. Il riferimento è innanzitutto ai migranti a bordo della nave Gregoretti, della Guardia Costiera italiana nel luglio 2019 e per quelli a bordo della Proactiva Open Arms, nell'agosto 2019, che ha trattenuto a bordo le persone soccorse in mare a cui non era stato permesso l'accesso al territorio italiano per ordini promananti dal Governo. Nel primo caso, il competente Tribunale dei Ministri aveva richiesto il rinvio a giudizio del Ministro dell'Interno, ottenendo dal Senato l'autorizzazione a procedere nel febbraio 2020. Ma il procedimento si era poi chiuso con la sentenza di non luogo a procedere da parte del GUP di Catania, perché “il fatto non sussiste”. Nel secondo caso, il Senato aveva concesso l'autorizzazione a procedere nei confronti dell'esponente governativo nell'aprile 2021 e il GUP aveva disposto il suo rinvio a giudizio per i reati di sequestro di persona e rifiuto di atti d'ufficio. E' tuttavia seguita la sentenza del 20 dicembre 2024, con cui il Tribunale di Palermo ha prosciolto l'esponente governativo sempre “perché il fatto non sussiste”. E non guasta neppure ricordare il filone contenzioso sviluppatosi nell'ambito della giurisdizione amministrativa, a seguito: - dell'impugnazione, di alcune ONG noleggiatrici di navi utilizzate per il soccorso in mare dei migranti nella zona del Mediterraneo, degli atti sulla cui base lo Stato italiano aveva individuato, per lo sbarco dei migranti dalle stesse soccorsi, porti in tesi troppo lontani rispetto al luogo di soccorso (uno di questi contenziosi ha dato luogo alla sentenza del Consiglio di Stato, III Sezione, n. 1615/2025 in seguito richiamata più volte); - dei giudizi di accesso incardinati per ottenere l'ostensione degli atti sulla cui base lo Stato italiano era addivenuto all'individuazione del porto di attracco in relazione ad alcune operazioni di soccorso condotte da navi noleggiate dalle ONG medesime. Come si può notare numerose sono state le occasioni di vaglio in sede giurisdizionale dell'attività compiuta dallo Stato italiano nell'ambito delle operazioni di soccorso dei migranti in mare, occasioni nelle quali sono emersi la dialettica e il (sempre più) problematico contemperamento fra i diritti dei migranti e l'interesse pubblico dello Stato alla corretta ed efficace gestione del fenomeno migratorio. I gradi precedenti del giudizio Una volta sbarcati dalla nave della Guardia Costiera, alcuni migranti eritrei si sono rivolti al Tribunale di Roma con un ricorso ex art. 702-bis c.p.c., per chiedere la condanna del Governo italiano al risarcimento dei danni non patrimoniali lamentati in occasione della restrizione della libertà personale in tesi subita a bordo della predetta nave. E ciò sulla base del presupposto per cui: i) secondo la legge italiana e la normativa europea, internazionale e consuetudinaria, la nave della Guardia Costiera doveva essere subito fatta attraccare nel porto di Catania o, comunque, in un porto italiano, ii) una volta attraccata a Catania, i migranti dovevano essere immediatamente autorizzati a scendere sulla terra ferma. Costituendosi in giudizio il Ministero dell'Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri hanno eccepito in via preliminare il difetto assoluto di giurisdizione, in quanto l'atto di diniego all'attracco e quello di mancata autorizzazione allo sbarco integrassero nel loro insieme un atto politico. Hanno, poi, contestato nel merito la fondatezza della domanda, rilevando che la vicenda si è inserita in un contesto internazionale: - di tensione tra l'Italia e Malta, in merito all'assolvimento, da parte di quest'ultimo Stato (in qualità di obbligato principale), degli obblighi convenzionali di soccorso dei migranti, per i quali l'Italia stessa ha proceduto in via surrogatoria (nelle vesti di obbligato in via sussidiaria) al salvataggio in mare, al solo fine di preservare la loro incolumità; - di coinvolgimento delle autorità comunitarie nel tentativo dell'Italia di fermare gli sbarchi sulle proprie coste o quantomeno di ottenere una redistribuzione in sede europea dei migranti salvati dalle autorità italiane in acque internazionali e fatti sbarcare sulle coste italiane. Con ordinanza del luglio 2019, il Tribunale di Roma, in accoglimento dell'eccezione di parte resistente, ha dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione, ritenendo che l'attività dello Stato italiano avesse effettivamente dato luogo ad un atto politico, ritenendolo finalizzato al “perseguimento del preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di governo ai sensi dell'articolo 9, comma 3 della Legge costituzionale n. 1 del 1989”. È seguito l'appello da parte dei migranti dinanzi alla Corte di appello di Roma, che con sentenza n. 1803 del 13 marzo 2024: - da un lato, ha qualificato l'attività dello Stato italiano come atto amministrativo vincolato nell'an e conseguentemente ha ritenuto sussistente la giurisdizione del Giudice ordinario; - dall'altro, ha rigettato nel merito la domanda risarcitoria, avendo ritenuto: i) non ravvisabili né gli estremi della colpa in capo all'Amministrazione né la prova del danno-conseguenza, per difetto di allegazione; ii) comunque dirimente la considerazione “delle concrete modalità con cui si è realizzato il fatto, nonché della complessità e della non univocità della normativa di riferimento”. Il grado di legittimità Avverso la sentenza di secondo grado uno dei migranti ha proposto ricorso per Cassazione, basato su un unico motivo di ricorso, in cui ha lamentato che erroneamente: - la Corte ha attribuito rilevanza alla complessità della normativa in tema di soccorso dei migranti in zona SAR (acronimo di Search and Rescue, termine questo utilizzato dalle convenzioni internazionali in materia), cioè nella zona di ricerca e soccorso, senza considerare che a fondamento della domanda era stata dedotta una condotta meramente materiale, concretizzatasi nella limitazione di libertà per dieci giorni dei migranti senza alcun provvedimento amministrativo o giudiziario, in violazione degli artt. 13,24 e 111 della Cost.; - è stata ravvisata la mancata allegazione di elementi volti a sostanziare la colpa delle autorità italiane, tenuto conto che in tesi il dedotto danno non patrimoniale era da ricondursi alla restrizione della libertà personale non giustificata da provvedimenti amministrativi o giudiziari; - erroneamente il Giudice di merito ha ritenuto non provato il danno non patrimoniale, atteso che: i) la privazione della libertà personale per dieci giorni è di per sé una lesione della dignità umana sufficiente a configurare il danno non patrimoniale; ii) è ammesso il ricorso alle presunzioni semplici per valutarne l'incidenza negativa sulle condizioni di vita degli attori. 4.1 - Dal canto loro, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell'Interno hanno proposto ricorso incidentale “eventualmente condizionato”, affidato a due motivi. Con il primo mezzo hanno censurato la pronuncia di appello, nella parte in cui non ha ravvisato nell'attività posta in essere dallo Stato italiano un atto politico, atteso che quest'ultimo: i) è promanato da un organo di Governo (il Ministro dell'Interno); ii) ha rappresentato espressione della funzione di indirizzo politico considerati il surriferito contesto in cui detta attività è stata posta in essere nonché la riconducibilità delle finalità di monitoraggio e di controllo dei flussi migratori alla tutela dell'interesse pubblico nazionale, sussistendo chiari profili attinenti all'ordine ed alla sicurezza pubblica. Con il secondo mezzo, i ricorrenti incidentali hanno lamentato l'omesso esame, da parte della Corte d'Appello, dell'eccezione preliminare da essi opposta circa il difetto di legittimazione attiva in capo agli attori - e dunque, del migrante ricorrente - per mancanza della prova della loro effettiva presenza a bordo della nave della Guardia Costiera, con riflessi anche sulla validità della procura e sulla nullità dell'atto introduttivo per mancanza di certezza sull'identità della parte ricorrente. Le questioni giuridiche e le soluzioni Innanzitutto, mette conto precisare che il fascicolo è stato deferito alle Sezioni Unite, invece che ad una delle altre Sezioni “semplici”, non già in ragione della particolare rilevanza della questione (cfr. art. 374, comma 2 c.p.c.), bensì in considerazione della loro competenza a decidere i ricorsi in cui, come nel caso di specie, venga in rilievo il difetto di giurisdizione (cfr. art. 374, comma 1 c.p.c.). In via preliminare, la Suprema Corte ha evidenziato la necessità di procedere all'esame congiunto, per evidenti ragioni di reciproca dipendenza logica, dell'unico motivo di ricorso principale e del primo motivo del ricorso incidentale, ad onta del fatto che: i) esso sia stato espressamente proposto come ricorso “eventualmente condizionato”; ii) quindi, secondo l'orientamento giurisprudenziale consolidato, andava esaminato soltanto in caso in cui sia stata previamente riconosciuta la fondatezza del ricorso principale (cfr. ex multis, Cass. Civ. Sez. un. nn. 34318/2023, 35308/2022, 7381/2013, 23318/2009). Tuttavia la Cassazione ha rilevato, con argomentazioni nel complesso condivisibili, che detto orientamento risulta riferito al diverso caso concernente il difetto relativo di giurisdizione e che non può quindi trovare applicazione al difetto assoluto di giurisdizione, atteso che la relativa eccezione è volta a contestare l'esistenza stessa del potere di conoscere della controversia in sede giurisdizionale. Così, non si potrebbe riconoscere, in ipotesi, la fondatezza della pretesa risarcitoria senza prima riconoscere la suscettibilità di quella pretesa ad ottenere tutela giurisdizionale. La Cassazione è poi passata all'esame del merito statuendo, in estrema sintesi che: i) il diniego di attracco e di sbarco non sono inquadrabili fra gli atti politici, costituendo atti amministrativi sindacabili dal Giudice ordinario; ii) il trattenimento dei migranti a bordo della nave della Guardia Costiera ha integrato una violazione della loro libertà personale, con conseguente responsabilità dello Stato ai sensi dell'art. 2043 c.c.; iii) è ravvisabile la colpa dello Stato italiano, in presenza di un quadro ritenuto chiaro delle norme internazionali sugli obblighi di assistenza e di sbarco nonché in presenza di diritti fondamentali; iv) il danno non patrimoniale è risarcibile anche senza prova specifica del danno conseguenza, in quanto la detenzione arbitraria lede la dignità umana. Nel seguito, si procederà all'analisi dei passaggi argomentativi più rilevanti della pronuncia. Osservazioni Natura del diniego di indicare il porto di attracco e del successivo divieto di sbarco Un primo aspetto di estremo interesse della pronuncia riguarda il percorso concettuale che ha condotto la Suprema Corte a non ricondurre gli atti sulla cui base lo Stato italiano ha determinato il trattenimento dei migranti sulla nave della Guardia Costiera (cioè il diniego di indicare il porto di attracco e il successivo divieto di sbarco) al novero degli atti politici ma a quello degli atti amministrativi sindacabili in sede giurisdizionale. 6.1 - I Giudici di legittimità, pur partendo dalla tradizionale nozione di atto politico, ormai condivisa in giurisprudenza, come atto promanante da un organo preposto alla direzione della cosa pubblica al massimo livello (elemento soggettivo) e libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici (elemento oggettivo) – hanno riletto e reinterpretato detta nozione alla luce di quanto argomentato un loro precedente (cfr. Cass. Civ., SS.UU., n. 27177/2023, che aveva negato la qualificazione di atto politico alla lettera di garanzia sul benessere dei minori adottandi diretta al Presidente della Repubblica di Bielorussia; nella stessa direttrice ex multis, anche Cass. Civ., I, n.33398/2024, sulla sindacabilità dell'inserimento di un Paese nella lista di quelli sicuri; Cass. Civ., SS.UU., n.15601/2023, sulla sindacabilità dell'attribuzione della cittadinanza onoraria da parte di un consiglio comunale; cfr. Cass. Civ., SS.UU., n.10319/2016, sulla sindacabilità della delibera della giunta regionale che non preveda una soglia minima di prezzo in un'operazione di cartolarizzazione immobiliare). Tale rilettura è partita dall'affermazione della recessività e dell'eccezionalità delle ipotesi di atti politici, alla luce dell'esigenza di matrice costituzionale di non svuotare di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale nei confronti dell'Amministrazione. In tal ottica, l'identificazione dell'atto politico è affidata: - da un lato, ad un rigoroso vaglio contenutistico, al fine di ricomprendere nel suo novero un ristretto numero di atti espressione di scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; - dall'altro, alla considerazione della dimensione sostanziale del principio di legalità, in virtù della quale la sindacabilità in sede giurisdizionale deve essere consentita ove, come nel caso di specie, l'atto di esercizio del potere sia suscettibile di essere confrontato con le norme che lo disciplinano; - d'altro lato ancora, alla valutazione della presenza di interessi giuridicamente rilevanti – e come tale tutelabili in sede giurisdizionale - emergenti dalle norme disciplinanti il potere esercitato dall'Amministrazione. Le Sezioni Unite, poi, hanno rispolverato la distinzione fra atto politico e atto per motivi politici – di matrice dottrinale e invero non del tutto perspicua - per affermare che l'azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale, quando l'Esecutivo si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono e siano in gioco i diritti fondamentali degli individui (siano essi cittadini o stranieri), costituzionalmente tutelati. A tale stregua, la Suprema Corte è pervenuta ad escludere che il diniego di indicare il porto di attracco e il successivo divieto di sbarco potessero integrare un atto politico, come tale sottratto al controllo giurisdizionale; e ciò in quanto l'attività compiuta dall'Amministrazione nella specie: i) non è stata ritenuta riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici attinenti alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali; ii) è intervenuta in un quadro regolatorio che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini ed è espressione di una funzione amministrativa da svolgere in attuazione di un indirizzo politico: le motivazioni politiche alla base della predetta attività non valgono a snaturarne la qualificazione in termini di atto amministrativo. La Cassazione ha quindi ritenuto il diniego di indicare il porto di attracco e il successivo divieto di sbarco atti amministrativi per fini politici. Fin qui la sentenza. 6.2 – Va subito osservato che la rilettura operata dalla Suprema Corte della nozione di atto politico appare ancorata a princìpi costituzionali di primaria rilevanza, riconnessi al principio di effettività e di pienezza della tutela giurisdizionale (cfr. artt. 24, 111, 113 e 101) ed è stata effettivamente fatta propria anche da una parte della giurisprudenza amministrativa (cfr. in tal senso ex multis, Cons. St., VI, n.3550/2018; T.A.R. Lazio, Roma, III, n. 176/2019). Ma soprattutto, merita evidenziare che il Consiglio di Stato, in una recente pronuncia intervenuta pochi giorni prima dell'ordinanza in commento (la sentenza del Consiglio di Stato; III, n. 1615 del 25 febbraio 2025), esprimendosi sulla natura del solo atto di individuazione del “porto sicuro” ha avuto modo di ritenere che: - tale atto appartiene al novero degli atti amministrativi; - lo stesso risulta vincolato nell'an ma discrezionale nel quomodo; - quanto allo suo statuto giuridico, tale provvedimento, pur avente caratteristiche peculiari, risulta accostabile tanto alle autorizzazioni costitutive, tanto agli ordini; delle prime esso condivide l'aspetto accrescitivo, concretandosi in un atto permissivo, che riscontra un'istanza e che attribuisce nuove facoltà, subordinatamente ad una previa valutazione di compatibilità con l'interesse pubblico; degli ordini e, in particolare, dei comandi, condivide invece il carattere imperioso ed impositivo di un facere determinato e necessitato da contingenti esigenze di celerità e speditezza; - tale seconda connotazione risulta prevalente, risolvendosi l'assegnazione del punto di approdo e di sbarco in un atto organizzativo che deve ineludibilmente rispondere a criteri di celerità ed efficienza; - tale atto, poi, intrinsecamente non necessita di una motivazione specifica e implica tempi di valutazione e di azione incompatibili con la conduzione di una fase istruttoria “ordinaria” (e con il correlato obbligo di partecipazione procedimentale) previsti dalla legge generale sul procedimento amministrativo, della quale la motivazione del provvedimento rappresenta la naturale estrinsecazione. Come può scorgersi immediatamente, pare registrarsi un recente allineamento dei due supremi Organi giurisdizionali del plesso ordinario e amministrativo nella riconduzione almeno dell'atto di assegnazione del “porto sicuro” al novero degli atti amministrativi. 6.3 - Merita, comunque, considerare, anche in relazione all'atto di divieto di sbarco, che la rilettura operata nell'ordinanza in commento sconta l'opinabilità insita in ogni ricostruzione ermeneutica di una categoria soltanto mentovata dalla legge ma non altrimenti definita (cfr. oggi art. 7 del cod.proc.amm. e in precedenza art. 31 del r. d. n. 1054/1924 e art. 3, comma 2, della l. n. 5992/1889) e non pare armonizzabile con la nozione di atto politico, fatta propria da una parte della giurisprudenza amministrativa, attenta a valorizzarne la sostanza e la “causa”. A tale stregua, si è escluso che gli atti politici costituiscano un numero chiuso e predeterminato dal diritto positivo in assenza di una precisa indicazione normativa al riguardo, dovendosi piuttosto fare riferimento per la loro individuazione ai criteri soggettivo e oggettivo menzionati in precedenza e peraltro anche richiamati in abbrivio dalla Suprema Corte. Così, ai fini della riconduzione di un provvedimento all'ambito degli atti politici non rileva tanto la sussistenza di norme che disciplinano il potere amministrativo quanto il rilievo per cui l'atto concretizzi l'esercizio del potere politico. A tale stregua, si è addivenuti a sottrarre al sindacato giurisdizionale di atti che, pur essendo soggettivamente e formalmente amministrativi, hanno natura politica, cioè costituiscono espressione della fondamentale funzione di direzione e di indirizzo politico (cfr. ex multis, Cons. St., IV, n.4636/2022; T.A.R. Lazio, Roma, I, n.17159/2022; id., n. 8162/2020, che ha concluso per la natura di atto politico dell'atto di nomina, da parte dei Presidenti dei due rami del Parlamento, del presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, ad onta della sussistenza di una disciplina per l'esercizio del potere e della possibile configurabilità di situazioni potenzialmente meritevoli di tutela in favore dei vari concorrenti alla carica). In questo quadro, nella giurisprudenza amministrativa si è ritenuto che: i) la materia delle relazioni e della politica internazionali esprime ontologicamente una funzione politica, attribuita ad un organo costituzionale che, per sua natura, è tale da non potersi configurare, in rapporto ad essa, una situazione di interesse protetto a che gli atti in cui si manifesta assumano o non assumano un determinato contenuto; ii) costituisce “attività chiaramente di natura politica, [quella] che involge delicati profili correlati ai rapporti internazionali fra gli Stati, di per sé espressione di una funzione sovrana apicale, libera nel fine e perciò sottratta al sindacato giurisdizionale” (cfr. in tal senso, Cons. St., IV, n. 5543/2021). Su tali basi, sono stati ripetutamente esclusi sia l'accesso difensivo che l'accesso civico generalizzato agli atti relativi all'attività di pattugliamento e soccorso in mare (cfr. Cons. St., V, n. 2566/2024); e ciò proprio in considerazione della molteplicità delle implicazioni, connesse a dette attività, di carattere militare, di polizia, nonché di politica migratoria interna ed estera (si pensi ai rapporti internazionali con lo Stato dell'area SAR, con lo Stato di bandiera della nave soccorritrice e a volte con l'Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera – Frontex), cioè della loro connotazione latamente politico-discrezionale (cfr. ex multis, Cons. St, V, n. 1195/2023; id., n. 1121/2020 e in senso analogo anche Linee Guida ANAC n. 1309/2016). Si è quindi ritenuto che la documentazione amministrativa correlata all'attività di pattugliamento e di soccorso in mare contiene e riflette posizioni, oltre che interessi, di politica estera del Governo, nonché scelte e azioni di carattere politico, al cospetto delle quali il diritto di accesso risulta recessivo. Su questa falsariga nonché in considerazione della cornice conflittuale con altri Stati chiamati a cooperare all'attività SAR nella quale si è posta l'attività rilevante nella specie, è lecito chiedersi, quanto meno con riferimento al divieto di sbarco, se non sussistessero nella specie margini sufficienti per ricomprenderla nel novero degli atti politici. Non guasta, infine, soggiungere che la Suprema Corte non ha esplicitato le ragioni giuridiche che hanno condotto alla mancata valorizzazione, ai fini della qualificazione degli atti in esame come politici, dell'art. 9, comma 3 della l. cost. n. 1/1989, che contempla il rifiuto dell'autorizzazione a procedere nel caso di atti preordinati “interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” o al “perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo”. Sulla base di tale referente normativo, il Parlamento aveva già denegato l'autorizzazione a procedere e il Tribunale di Roma, in primo grado, aveva qualificato come politici tali atti, siccome preordinati al “perseguimento del preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di governo ai sensi dell'articolo 9, comma 3 della Legge costituzionale n. 1 del 1989”. Al riguardo, come si illustrerà meglio al par. 11, le Sezioni Unite si sono limitate a confinare l'operatività del predetto referente normativo all'ambito penalistico, senza tuttavia corredare tale argomentazione delle ragioni giuridiche a sostegno di questa opzione forse eccessivamente riduttiva e limitante. Provvedimento di individuazione del porto sicuro e riflessi in materia di giurisdizione La Suprema Corte, sempre in sostanziale consonanza con la pronuncia del Consiglio di Stato n. 1615/2025, è pervenuta alla qualificazione dell'atto di individuazione del “porto sicuro”, come atto vincolato nell'an ma discrezionale nel quomodo; e ciò in quanto è stato riconosciuto allo Stato italiano un margine di discrezionalità tecnica, ai fini dell'individuazione del punto di sbarco più opportuno in base alle caratteristiche dell'operazione, per garantire una sua gestione ottimale. Alla luce di ciò, merita di essere valutata l'affermazione, compiuta nell'ordinanza in commento, relativa alla sussistenza della giurisdizione del Giudice ordinario a fronte della presenza nella specie di diritti fondamentali (quelli dei migranti), sol perché non viene in rilievo un'ipotesi di giurisdizione esclusiva. Si tratta di un'affermazione che appare astrattamente coerente con il ritenuto carattere incomprimibile dei diritti fondamentali riconosciuti ai migranti ma non sembra del tutto collimare con: - il riconoscimento in capo all'Amministrazione di poteri tecnico-discrezionali, volti a conformare i diritti dei migranti ad un soccorso rapido con altri interessi pubblici (cfr. in tal senso anche quanto affermato dal Consiglio di Stato n. 1615/2025 al par. 36); evidentemente l'evocazione della discrezionalità tecnica implica che i diritti fondamentali dipendono, per la loro soddisfazione, dall'esercizio del potere pubblico autoritativo; - il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui: i) non esiste “alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario escludendone il giudice amministrativo la tutela dei diritti costituzionalmente protetti” (cfr. Corte cost., n. 140/2007); ii) la cognizione delle controversie relative a diritti fondamentali dev'essere deferita al Giudice amministrativo nella misura in cui venga in rilievo un potere autoritativo (omesso o male esercitato) dell'Amministrazione e i diritti siano lesi da atti e comportamenti esercizio di tale potere; laddove il diritto fondamentale dipenda per la sua soddisfazione dall'esercizio del potere pubblico o la sua lesione sia in connessione con tale potere, la giurisdizione amministrativa costituisce un esito necessitato da un assetto sostanziale centrato sull'intermediazione amministrativa (cfr. ex multis, Cons. St., V, n. 129/2025 e i numerosi precedenti della Suprema Corte ivi citati e in dottrina F. Patroni Griffi, L'eterno dibattito sulle giurisdizioni tra diritti incomprimibili e lesione dell'affidamento, in Federalismi, n. 24/2011): iii) sussiste la giurisdizione del Giudice amministrativo laddove – proprio come sembra avvenire nel caso in esame – il diritto fondamentale può essere conformato dall'Amministrazione, cui spetta il bilanciamento tra diritti costituzionalmente protetti ed altri diritti o interessi, pur postergati rispetto ai primi ma comunque rilevanti in fase conformativa (cfr. sempre Cons. St., V, n. 129/2025 citato). Tali rilievi appaiono particolarmente calzanti nell'ipotesi, diversa da quella in questione, in cui in futuro i migranti dovessero lamentare le conseguenze pregiudizievoli conseguenti all'esercizio da parte dell'Amministrazione della discrezionalità tecnica nell'individuazione del “porto sicuro”, cioè conseguenze derivanti dall'attività autoritativa di conformazione del loro diritto e dovessero proporre la connessa domanda risarcitoria. In relazione a ciò, sarà interessante vedere gli orientamenti che assumerà la giurisprudenza in tali fattispecie, considerato che parrebbero sussistere margini per la devoluzione dell'intera controversia alla cognizione del Giudice amministrativo, provvisto di strumenti idonei ad assicurare la tutela dei diritti fondamentali dei migranti in modo pieno, effettivo ed equivalente rispetto al plesso giurisdizionale ordinario. La ricostruzione normativa in materia di soccorso in mare dei migranti Altro passo della decisione degno di rilievo e di interesse è quello in cui la Suprema Corte ha proceduto alla confutazione delle argomentazioni sulla cui base la sentenza impugnata aveva escluso la colpa dell'Amministrazione, rilevante ai fini della declaratoria della sua responsabilità da fatto illecito, ai sensi dell'art. 2043 c.c. La Corte d'Appello, in particolare, aveva rilevato, con argomentazioni articolate: i) l'incertezza delle norme internazionali che regolano la materia dello sbarco a seguito di operazioni di soccorso marittimo; ii) l'insussistenza, in termini di certezza, dell'obbligo giuridico, in capo allo “Stato di primo contatto”, di rilasciare il POS ovvero di rilasciarlo entro un determinato termine e secondo determinate modalità; iii) la mancanza di regole chiare circa l'individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo. Ora, la Suprema Corte, nel confutare la correttezza della ricostruzione compiuta dalla Corte d'Appello ha delineato, ai fini della dimostrazione della sussistenza nella fattispecie all'esame della colpa dell'Amministrazione, il quadro normativo regolante i soccorsi in mare e l'individuazione del luogo di sbarco. 8.1 - Queste, in sintesi, le coordinate normative individuate dalla pronuncia in commento: – l'obbligo del soccorso in mare corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali, oltre che del diritto marittimo italiano; pertanto esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell'immigrazione irregolare; – le Convenzioni internazionali in materia, cui l'Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10,11 e 117 Cost., non possono costituire oggetto di deroga sulla base di scelte e valutazioni discrezionali dell'autorità politica, poiché assumono, in base al principio“pacta sunt servanda”, un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna; – l'obbligo in discorso è stato oggetto di regolamentazione dettagliata ad opera: i) della Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (c.d. Convenzione SOLAS, acronimo di Safety Of Life At Sea, del 1974, ratificata dall'Italia con la l. n. 313/1980); ii) della Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (c.d. Convenzione SAR, acronimo di Search And Rescue, anche nota come Convenzione di Amburgo, ratificata dall'Italia con l. n. 147/1989 e attuata con il d.P.R. n. 662 del 1994); iii) della Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay sul Diritto del Mare del 1982 (c.d. Convenzione UNCLOS, acronimo di United Nations Convention on the Law of the Sea, ratificata dall'Italia con la l. n. 689/1994); 8.2 - Dall'esame delle surrichiamate fonti, la Suprema Corte ha desunto una serie di precipitati applicativi, facendo registrare un sostanziale allineamento rispetto a quanto già affermato pochi giorni prima dal Consiglio di Stato nella già citata pronuncia n. 1615/2025. In tale decisione, intervenuta in una fattispecie in cui è stata contestata la designazione, da parte dello Stato italiano in relazione ad una missione SAR compiuta da una ONG, di un “porto sicuro” non vicino al luogo di soccorso, è stato puntualizzato che: - la nozione di “porto sicuro” non può coincidere – in assenza di indicazioni puntuali contenute nelle predette convenzioni e persino nel soft law - con il porto geograficamente più vicino all'intervento di salvataggio; - la sua individuazione dipende invece la sua individuazione da una molteplicità di fattori legati al caso concreto, quali lo status delle persone tratte in salvo (richiedenti asilo, rifugiati), il numero di naufraghi, la situazione a bordo, le condizioni di salute dei soccorsi, le condizioni metereologiche, la presenza di persone fragili o di minori tra i soccorsi. 8.3 – Le Sezioni Unite nella pronuncia in commento hanno poi osservato che: - se è vero che, a mente dei surrichiamati testi convenzionali, l'obbligo di soccorso incombe sullo Stato responsabile di un'area SAR, in caso di emergenza in mare nella propria area di responsabilità, la Convenzione SAR (capitolo 3.1.9) e la Convenzione SOLAS, come interpretate dalla dottrina maggioritaria, prevedono un dovere di attivazione sussidiario in capo agli Stati aderenti, a prescindere dalla nazionalità della nave che opera il salvataggio e, dunque, dai doveri dello Stato di bandiera (cfr. in tal senso Consiglio di Stato, III, n. 1615/2025 par. 33.2, che fa perno sull'art. 98 della Convenzione di Montego Bay); - le operazioni di salvataggio comprendono non solo con le operazioni di soccorso ma anche la concreta indicazione del POS e il successivo arrivo dei naufraghi nel luogo sicuro designato (cfr. in tal senso Consiglio di Stato, III, n. 1615/2025 par. 33.1); - lo Stato responsabile del soccorso deve organizzare lo sbarco “nel più breve tempo ragionevolmente possibile” (Convenzione SAR, capitolo 3.1.9) (cfr. in tal senso Consiglio di Stato, III, n. 1615/2025 parr. 30 e 32 e 33.1); - nell'ottica della Convenzione SAR, sulla base dei successivi interventi che ne hanno integrato i principi fondamentali, per “luogo sicuro” si intende un luogo in cui sia garantita non solo la sicurezza delle persone soccorse in mare, ma anche il pieno esercizio dei loro diritti fondamentali (cfr. in tal senso Consiglio di Stato, III, n. 1615/2025 par. 34.1); - la Risoluzione MSC.167(78) del 20 maggio 2004, recante le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare) esclude che la nave che effettua il soccorso possa esser considerata un POS, se non temporaneamente (cfr. par. 6.13) (cfr. in tal senso Consiglio di Stato, III, n. 1615/2025 par. 35). 8.4 - Da tali precipitati applicativi, la Cassazione ha fatto derivare il dovere, per la prima volta affermato con chiarezza e in modo certo per lo Stato italiano, qualora i suoi mezzi abbiano proceduto al primo soccorso in via sussidiaria al di fuori della zona SAR di competenza, di individuare “nel più breve tempo ragionevolmente possibile” un luogo sicuro per lo sbarco, per tale non potendosi intendere la nave dei soccorritori (cfr. in tal senso anche Cass. Pen. n. 6626/2020 relativa al c. d. “caso Rackete” e Cons. St., III, n. 1615/2025 par. 35 della motivazione). In questo senso, l'ordinanza in commento sembra compiere un passo ulteriore rispetto alla summenzionata pronuncia del Consiglio di Stato, forgiando un parametro valutativo dell'operato dello Stato italiano potenzialmente suscettibile di essere applicato anche alle fattispecie di salvataggi compiuti dalle ONG, quanto meno nei casi in cui il “porto sicuro” venga individuato in una località tanto lontana da comportare la forzata permanenza a bordo dei migranti soccorso per un tempo eccedente a quello ritenuto dal Giudicante ragionevolmente necessario. Naturalmente, la valutazione circa la ragionevolezza del tempo di permanenza dei migranti soccorsi sulla nave sarà di volta in volta rimessa alla valutazione del Giudicante e sarà quanto mai opportuno, visti l'elasticità del parametro e i rischi di arbitrarietà insiti nella sua calibrazione nel concreto, che detta valutazione sia ancorata non tanto alle prospettazioni soggettive di parte quanto ad elementi oggettivi provvisti di adeguata consistenza, primi fra tutti le circostanze della singola vicenda come desumibili da fonti certe e attendibili prodotte in atti. La Suprema Corte ha introdotto, quindi, un tassello ulteriore, funzionale alla tutela più effettiva dei diritti fondamentali dei migranti, rispetto ai quali ogni ulteriore esigenza pubblica di regolazione del flusso migratorio sarebbe postergata; e ciò con buona pace delle affermazioni del Consiglio di Stato, che nella citata pronuncia n. 1615/2025 aveva individuato nell'atto di designazione del “porto sicuro” una componente discrezionale, connessa alla necessità di contemperare in maniera ragionevole e proporzionata l'esigenza dei migranti ad un pronto soccorso e quella dello Stato che effettua l'intervento alla gestione del flusso migratorio in modo organizzato, con ciò sembrando aprire alla considerazione nell'ambito in discorso dell'interesse pubblico alla corretta gestione dei flussi migratori, per le Sezioni Unite avente valenza nettamente recessiva. La ritenuta chiarezza del quadro normativa e l'arbitraria restrizione della libertà dei migranti La Suprema Corte, sulla scorta della surrichiamata e quanto mai articolata premessa ricostruttiva, ha ritenuto di poter concludere che nella specie: - sussisteva un insieme di regole chiare sull'individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo, anche in considerazione del fatto che le operazioni sono state di fatto assunte sotto la responsabilità di una autorità SAR italiana; - la condotta dello Stato italiano è stata tale da integrare un illecito civile nella misura in cui le operazioni di soccorso, comprensive del soccorso e dello sbarco, non sono state compiute “nel più breve tempo ragionevolmente possibile”, considerata la permanenza dei migranti per dieci giorni sulla nave della Guardia Costiera; - la rilevata violazione, da parte dello Stato italiano, della normativa internazionale è ulteriormente qualificata dalla arbitraria violazione della libertà personale dei migranti, tutelata: 1) dall'art. 13 della Cost. quale diritto inviolabile della persona, presidiato dalla riserva di giurisdizione e dalla riserva assoluta di legge (cfr. sul punto, Corte Cost. n. 105/2021, pronunciatasi sulla piena spettanza delle garanzie stabilite dalla norma costituzionale anche in favore degli stranieri); 2) dall'art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948; 3) dall'art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (di seguito anche “CEDU”); 4) dall'art. 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Sotto tale profilo, è ben vero - hanno rilevato le Sezioni Unite - che l'art. 5 par. 1 lett. f) CEDU ammette, eccezionalmente, la privazione della libertà personale per impedire l'ingresso illegale nel territorio dello stato, ove sia in corso un procedimento di espulsione o di estradizione. E tuttavia, ad avviso della Suprema Corte, la predetta norma non poteva trovare applicazione nel caso all'esame, in quanto: - il trattenimento a bordo della nave della Guardia Costiera ha riguardato migranti non ancora compiutamente identificati e non era inquadrabile né nei procedimenti di estradizione né in quelli di espulsione; - la norma convenzionale citata è stata interpretata sulla scorta delle coordinate recate dalla sentenza della Corte EDU del 15 dicembre 2016, resa nel caso Khlaifia and Others v. Italy, relativa al trattenimento (per circa una dozzina di giorni) di migranti tunisini a bordo di navi, ormeggiate nel porto di Palermo, per effetto di un atto dell'Esecutivo; in tale occasione, la Corte EDU ha precisato la portata dell'art. 5, par. 1, lett. f), statuendo che: 1) la privazione della libertà dallo stesso prevista può essere giustificata soltanto dal fatto che è in corso una procedura di espulsione o di estradizione condotta con diligenza (cfr. sentenza CEDU nel caso A. e altri c. Regno Unito, § 164) (la detenzione deve essere, cioè “regolare”); 2) qualsiasi ipotesi di privazione della libertà deve essere con chiarezza nel diritto interno con legge prevedibile; per la Cassazione, nel caso in esame come in quello deciso dalla CEDU, l'insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l'arbitrarietà della privazione della libertà inferta ai migranti. Fin qui l'ordinanza. 9.1 - Con riguardo alla rilevata chiarezza del quadro normativo sull'individuazione dello Stato tenuto a farsi carico, dopo il primo soccorso, dei soggetti tratti in salvo, va rilevato che l'affermazione compiuta nella pronuncia in commento non considera forse appieno l'insussistenza di una norma (sovranazionale o interna) volta a sancire in modo espresso e chiaro tale regola. E ciò è tanto vero che sia l'ordinanza in esame sia la più volte citata sentenza del Consiglio di Stato n. 1615/2025 sono state “costrette” a far riferimento all'interpretazione delle Convenzioni SAR e SOLAS, compiuta “dalla dottrina maggioritaria” o a norme, come l'art. 98 della Convenzione di Montego Bay, dal contenuto eccessivamente generico. In questo senso, già il Consiglio di Stato nella prima parte pronuncia n. 1615/2025 (cfr. praesertim parr. 17.1, 17.2 e 17.3) aveva rilevato la complessità e la non univocità del quadro normativo in materia, formatosi per effetto dell'affastellarsi nel tempo di norme di varia natura non coordinate fra loro, evidenziando il carattere datato delle convenzioni internazionali, nate per consentire il salvataggio delle persone in mare, in occasione di eventi di pericolo o di danno di carattere eccezionale, idonei ad imporre un obbligo di carattere solidaristico connesso al salvataggio della vita umana e, solo mediatamente, anche il dovere di fornire rifugio a navi che si trovano in condizioni di estremo pericolo. Ebbene, dette convenzioni sono state sopravanzate dal fenomeno delle migrazioni di massa, che hanno assunto negli ultimi quarant'anni carattere di regolarità, ponendo questioni problematiche nuove e differenti in ragione della frequenza degli interventi di salvataggio, divenuti non più episodici, e di accoglienza delle persone tratte in salvo nel territorio degli Stati che effettuano gli interventi di soccorso, con l'insorgere di ulteriori obblighi in capo agli Stati che operano il salvataggio di imbarcazioni che trasportano migranti. Su tali basi, è lecito dubitare che nella specie potesse bastare l'interpretazione (neppure monolitica) della dottrina, in un contesto caratterizzato: i) dalla presenza norme generali datate, riferite a realtà diverse, assai elastiche e di principio; ii) da una giurisprudenza interna oscillante; iii) dalla novità e della peculiarità della fattispecie concreta (di cui lo stesso Giudice di legittimità ha ammesso al par. 14 la non chiarezza dei relativi contorni fattuali), a suffragare la conclusione della chiarezza del quadro che imponeva allo Stato italiano di farsi carico non solo delle attività di primo soccorso ma anche dell'intera operazione SAR, surrogando a tutto tondo l'inerzia degli altri Stati a vario titolo investiti del medesimo obbligo in via principale. E del resto la stessa Cassazione, dopo aver compiuto la surrichiamata ricostruzione e aver concluso nel senso della chiarezza del quadro normativo, è sembrata voler giustificare l'obbligo dello Stato italiano di farsi carico dell'intera operazione SAR, pur avendo agito in via meramente sussidiaria, sulla base della circostanza fattuale per cui lo stesso si è di fatto assunto la responsabilità delle operazioni, con ciò applicando nei fatti una sorta di “colpa per assunzione” quasi a mo' di imputazione obiettiva. Si tratta di una posizione che: i) non valorizza appieno la portata dell'intervento compiuto nella specie, che si è limitato a garantire l'incolumità dei migranti in mare, nell'inerzia dei vari Stati competenti ad intervenire in via principale e in virtù di un obbligo meramente sussidiario; ii) rischia di apparire troppo rigorosa nei confronti dello Stato italiano, che si è fatto comunque carico di preservare l'incolumità dei migranti (e continua a farlo ancora oggi), nell'inerzia e nell'incertezza generale e in assenza di un univoco quadro regolatorio, anche in sede unionale, per la ripartizione dei flussi migratori. 9.2 – Quanto, poi, alle affermazioni della pronuncia in commento, volte a qualificare l'arbitrarietà della privazione di libertà inferta ai migranti, si rileva che l'estensione al caso di specie dei princìpi affermati dalla C. Cost. n. 105/2021 e dalla CEDU, in casi analoghi ma, per contesto e caratteristiche, differenti, rischia di condurre alla conclusione, difficilmente giustificabile sotto il profilo della logica giuridica, che a nessun migrante può essere impedito di entrare liberamente e anche illegalmente nel territorio dello Stato, se contro di lui non vi è uno specifico provvedimento giudiziario di restrizione della libertà personale ai sensi dell'art. 13 Cost., con le conseguenti ricadute in punto di: i) vanificazione pratica della ratio dell'art. 5 lett. f) della CEDU, volta a consentire la restrizione della libertà proprio per impedire l'immigrazione illegale; ii) pericolo di fuga, anche verso altri Paesi europei, dei migranti appena sbarcati nelle more della definizione (in tempi purtroppo non brevi) dei procedimenti giudiziari per la loro espulsione o estradizione; iii) di tenuta complessiva del sistema di controllo dell'immigrazione irregolare, anche a livello unionale (l'Italia potrebbe rischiare di diventare la “porta d'ingresso” in Europa dell'immigrazione illegale). In questo senso è auspicabile, de jure condendo, un intervento legislativo che regolamenti la fattispecie salvaguardando le garanzie costituzionali dei migranti, senza rinunciare al contempo ad adottare soluzioni idonee a garantire la tenuta del surrichiamato sistema. La valutazione della colpa dell'Amministrazione Venendo alla parte della pronuncia a cui tutta la precedente articolata parte ricostruttiva è stata finalizzata, cioè quella concernente la verifica della valutazione compiuta dalla Corte d'Appello sulla colpa dell'Amministrazione, la Suprema Corte, ha preso l'abbrivio: - dall'orientamento giurisprudenziale, ormai consolidatosi quanto meno a far tempo dalla storica sentenza n. 500/1999, secondo cui l'imputazione della responsabilità dell'Amministrazione non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo, essendo invece necessaria una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa, da intendersi quale colpa d'apparato, configurabile qualora l'atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione (cfr. ex permultis, Cons. St., V, n.10205/2024; id., IV, n. 8836/2024; Cassazione Civ., I, n. 3630/2021); - dall'orientamento giurisprudenziale in tema di scusabilità dell'errore di diritto, ammessa solo nelle ipotesi di oggettiva oscurità (attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi) della norma violata (cfr. ex multis, Cass. nn. 12839/1992, n. 2762/1978n. 5361/1984). Sulla base di tale premessa, la pronuncia in commento è addivenuta all'accertamento della colpa dell'Amministrazione sulla base: i) della ritenuta chiarezza, alla stregua delle norme convenzionali di riferimento, delle responsabilità dello “Stato di primo contatto” anche in caso di rifiuto dello Stato competente in via principale; ii) del rigore con cui deve essere condotto il vaglio di scusabilità (ex ante) dell'errore di diritto in presenza di condotte lesive di diritti inviolabili della persona, presidiate da norme di rango superprimario e di diritto internazionale. Orbene, sull'opinabilità dei presupposti sulla cui scorta la Cassazione è giunta a definire chiaro il quadro giuridico nella specie rilevante già si è detto in precedenza, al par. 9.1. Inoltre, le Sezioni Unite non sembrano aver valutato appieno anche la portata della consolidata giurisprudenza amministrativa che, al fine di valutare la scusabilità dell'errore dell'Amministrazione, ha valorizzato una serie più ampia di indici rispetto a quelli (forse troppo formali e restrittivi) considerati nell'ordinanza in commento, anche legati al dipanarsi della vicenda concreta in termini di novità, complessità e controvertibilità dei fatti; si tratta dei medesimi indici che la sentenza della Corte d'Appello aveva invece vagliato (cfr. ex multis, Cons. St., n. 1722/2023; id., III, n. 4027/2023; id., II, n. 6058/2021; T.A.R. Lazio, Roma, II, n.12932/2023; id., III, n.4680/2023). Sull'affermazione sub ii), si evidenzia che il rango delle situazioni giuridiche azionate nonché la natura delle norme applicate, se possono assumere rilievo nell'interpretare il quadro normativo in materia, non possono però condurre all'affermazione di responsabilità dell'Amministrazione in assenza di un effettivo accertamento della sua colpevolezza, specie in presenza di un quadro normativo complesso e tutt'altro che univoco. L'ordinanza in commento è quindi passata alla critica delle motivazioni, con cui il Giudice d'Appello ha escluso la colpa dell'Amministrazione. Al riguardo, è ben vero che la Suprema Corte ha evocato la figura della “motivazione apparente”, per giustificare il suo controllo compiuto sulla motivazione della sentenza di secondo grado. È tuttavia altrettanto evidente dalla lettura della pronuncia che le critiche svolte dalle Sezioni Unite attengono, in sostanza, non tanto a gravi lacune logiche inficianti l'esistenza stessa della motivazione quanto alla sua non condivisibilità, basata esclusivamente su questioni di diritto. Su tali basi, il sindacato della Cassazione sembrerebbe aver decampato in ambiti afferenti all'errata motivazione, nei quali normalmente il ricorso per cassazione è inammissibile (v. in tal senso anche G. Scarselli, Le Sezioni unite, i migranti e il diritto al risarcimento del danno-nota a Cass., sez. un. 6 marzo 2025 n. 5992, in Giustizia Insieme 16 marzo 2025, www.giustiziainsieme.it). Sul punto, vale richiamare la sentenza della Cass. Civ. n. 29183/2022, secondo cui “ove il giudice di merito, investito da una domanda di risarcimento del danno aquiliano, la rigetti affermando non esservi prova del dolo o della colpa, deve ritenersi inammissibile il motivo di ricorso per cassazione” (cfr. in tal senso anche Cass. Civ. nn. 3458/2015, 2424/2004; 11453/2003). Né può ritenersi che la motivazione della sentenza della Corte d'Appello possa ricomprendersi nelle fattispecie in cui è ammesso, secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite, il controllo della motivazione in sede di giudizio di legittimità, concernenti rispettivamente la “mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico”, la “motivazione apparente”, il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”(cfr. Cass. Civ., SS.UU., n. 8053/2014). A tale conclusione induce la valutazione della portata dell'articolata motivazione della sentenza d'appello nonché dell'altrettanto articolata critica di quest'ultima in sede di legittimità, snodatasi in circa una decina di pagine, tutte dedicate alla confutazione analitica dell'intera ricostruzione giuridica che aveva condotto la Corte d'Appello a negare la colpa in capo all'Amministrazione, sulla base della sua non condivisibilità sotto il piano giuridico. Valenza del diniego dell'autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro dell'Interno Innovativa e di sicuro interesse risulta, ancora, l'affermazione della pronuncia in commento, questa volta in linea con quanto già statuito dalla Corte d'Appello, per cui il diniego dell'autorizzazione a procedere non ha rilievo in sede civile, attese: i) la valenza del principio cardine della giustiziabilità di ogni atto lesivo di un diritto fondamentale; ii) la non influenza del diniego dell'autorizzazione, concessa per condotte compiute per l' “interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” o per il “perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo” (cfr. l. Cost. n. 1/1989), sulla valutazione dell'ingiustizia del danno. La decisione delle Sezioni Unite di ritenere la mancata autorizzazione a procedere irrilevante in sede civile parrebbe confermare la tesi che ne esclude la natura di causa di giustificazione e la qualifica come causa di improcedibilità (sui generis) o come particolare forma di immunità (cfr. in tal senso L. Masera, Le Sezioni Unite civili sul caso Diciotti: una decisione di grande importanza anche in sede penale, in Sistema Penale fasc. n. 3/2025). Fatto sta comunque che non solo tale conclusione è soltanto implicitamente desumibile dalla pronuncia ma non è stata neppure corroborata di argomentazioni giuridiche a sostegno. Ora, sarebbe stato quanto mai opportuno corredare la motivazione della pronuncia in commento con questo passaggio argomentativo, visto che inquadrare l'autorizzazione a procedere parlamentare fra le cause che elidono la punibilità (invece che fra quelle che ne detergono l'antigiuridicità, potenzialmente applicabili analogicamente anche in sede civilistica) e fondare con solide argomentazioni tale conclusione, sarebbe servito a rafforzare la conclusione della sua irrilevanza in sede civile. E ciò a maggior ragione ove si consideri che – come già anticipato nella chiusa del par. 6.3 - il riconoscimento, compiuto in sede di mancato rilascio dell'autorizzazione a procedere, dell'ascrivibilità della condotta del Ministero dell'Interno all'“interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” o al “perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo” sembra invece rappresentare una conferma della natura politica che ne ha ispirato l'operato e la sua “causa”. Né può sottacersi la non piena persuasività: i) da un lato, della distinzione fra colpa del Ministro dell'Interno e colpa dello Stato-apparato, tenuto conto che l'attività dell'Amministrazione è stata compiuta su impulso esclusivo del primo in attuazione di un indirizzo del Governo; ii) dall'altro, della distinzione fra la rilevanza penale del fatto e quella civilistica, tenuto conto della non chiarita natura giuridica dell'autorizzazione a procedere nonché della natura e dalla consistenza degli interessi che hanno ispirato l'operato dell'Amministrazione. La liquidazione del danno La parte finale dell'ordinanza in commento è dedicata alle critiche compiute dalle Sezioni Unite alla parte della sentenza della Corte d'Appello, che ha ritenuto l'insussistenza della prova e dell'allegazione del danno-conseguenza. Nell'abbrivio, la Suprema Corte ha richiamato il proprio consolidato e ultradecennale, secondo cui: - ad essere risarcibile non è la lesione dell'interesse giuridicamente protetto (danno-evento o evento di danno) ma il danno-conseguenza, vale a dire i pregiudizi derivanti secondo nesso di causalità giuridica (artt. 1223 e 2056 cod. civ.) dalla lesione stessa, da allegare e provare da parte del danneggiato; - non è predicabile nella specie di un danno in re ipsa, allo scopo di ritenere il danno-conseguenza insito nella sola violazione di diritti fondamentali (cfr. ex plurimis, cfr. Cass. Civ., SS.UU. nn. 576, 582, 581, 582 e 584/2008; id. nn. 26972 e 26975/2008, le c. d. “sentenze di San Martino”; id., n. 15991/2011; C. Cost. n. 372/1994; più recentemente, ex plurimis, cfr. Cass. Civ., I, n.2638/2025; id., n.6517/2025; Cassazione civile sez. III, n.3502 /2025; in giurisprudenza amministrativa cfr. ex plurimis, cfr. Cons. St., II, n.3256/2024; id., V, n.1087/2024). La Suprema Corte ha, poi, evidenziato che la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire (danno morale), all'esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato. In conseguenza di ciò, rifacendosi ad un suo precedente (Cass. Civ, n. 25164/2020), ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale volto a predicare la sufficienza della prova del danno non patrimoniale attraverso le presunzioni (cfr. in tal senso Cass. Civ., III, n. 34635/2024; id. n. 23300/2024; id., I, n.9068/2024; id., I, n.6795 /2024; id. n. 14207/2024 e gli ulteriori riferimenti ivi citati). Sennonché, da tale premessa il Giudice di legittimità ha fatto derivare come conseguenza la contrarietà al citato indirizzo della parte della pronuncia della Corte d'Appello, sebbene quest'ultima non avesse ritenuto l'inadeguatezza della prova presuntiva fornita da parte ricorrente bensì avesse rilevato in radice la carenza di allegazioni da parte degli attori. La Suprema Corte forse avrebbe potuto considerare appieno che: - l'orientamento applicato è sì univoco nell'ammettere la prova del danno non patrimoniale tramite presunzioni ma lo è altrettanto nel porre in modo chiaro e inequivocabile in capo all'attore l'onere di allegazione che andava, quindi, adempiuto in modo adeguato e che - ad avviso della Corte d'Appello - è stato addirittura omesso; - ritenere provato il danno-conseguenza sulla base di presunzioni non allegate dall'attore o peggio di fatti e massime d'esperienza neppure dallo stesso adombrate equivale, da un lato, a sollevare finanche dall'onere dell'allegazione la parte che ne è onerata ai sensi dell'art. 2697 c.c., dando luogo ad una sorta di “liquidazione del danno d'ufficio”; d'altro lato, un tale modus procedendi conduce a resuscitare nei fatti la figura del “danno in re ipsa” di cui la Suprema Corte ha affermato “la morte” da oltre un decennio. Se poi le affermazioni della Suprema Corte si ricollegano ad un passo precedente della pronuncia, volto a valorizzare la documentazione in atti relativa alle modalità di svolgimento dei fatti (dallo stesso Giudicante ritenuti da chiarire nei loro precisi contorni), esse risultano di problematica conciliabilità con il consolidato orientamento della Cassazione, secondo cui “non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (cfr. Cass. Civ., III, n.14207/2024 e i riferimenti ivi richiamati). Nello stesso senso ha avuto modo di esprimersi la consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui: i) “la valutazione degli indizi compiuta dal giudice di merito è incensurabile non solo quando sia l'unica possibile ma anche quando sia solo una tra le tante plausibili” (cfr. sempre Cass. Civ., III, n. 14207/2024; ii) va ritenuto inammissibile il ricorso in Cassazione basato sul “travisamento delle prove” (cfr. di recente Cass. Civ., III, n.6668/2025); iii) “la valutazione del rispetto dei requisiti delle presunzioni e della loro adeguatezza è un'attività discrezionale, che compete esclusivamente al giudice di merito e non può essere oggetto di riesame in sede di legittimità” (cfr. recente Cass. Civ., III, n.476/2025); iv) “la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un'attività riservata in via esclusiva all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, se non per il vizio di omissione dell'esame di uno o più fatti storici, principali o secondari, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbiano costituito oggetto di discussione tra le parti e abbiano carattere decisivo, tale che, se esaminati, avrebbero determinato un esito diverso della controversia”, fatti storici di cui l'ordinanza non reca alcuna menzione (cfr. Cass. Civ., n. 3119/2022 e in senso analogo ex multis, id., nn. 16467/2017, 11511/2014). Se così è, anche in relazione alla liquidazione del danno degli atti, la Suprema Corte, in maniera non dissimile da quanto già fatto in tema di valutazione della colpa dell'Amministrazione, sembrerebbe aver decampato in un ambito in cui tradizionalmente il ricorso in Cassazione risulta inammissibile (cfr. in tal senso anche G. Scarselli, Le Sezioni unite, i migranti e il diritto al risarcimento del danno, cit.). Legittimazione ad agire e titolarità del diritto e la lamentata omissione di pronuncia su questioni di rito L'ultima parte dell'ordinanza in commento è dedicata allo scrutinio del secondo motivo di ricorso incidentale subordinato, volto a denunciare l'omessa pronuncia da parte del Giudice d'Appello: i) sull'eccezione di difetto di legittimazione attiva degli appellanti (e dunque dell'odierno ricorrente); e ciò per difetto di prova e di allegazione, da parte di questi ultimi, della loro effettiva presenza a bordo della nave della Guardia Costiera; ii) sulla conseguente eccezione di nullità della procura e dell'atto introduttivo del giudizio per difetto di certezza sulla identità della parte. 13.1 - Sul punto, le Sezioni Unite prendono le mosse dalla propria pronuncia n. 2951/2016, secondo cui: - la legittimazione ad agire attiene al diritto di azione, che spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne titolare, cioè a chiunque si prospetti titolare della situazione giuridica azionata; - cosa diversa dalla titolarità del diritto ad agire è la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio: essa, in quanto elemento costitutivo della domanda e afferente al merito della decisione, soggiace all'onere dell'allegazione e della prova da parte dell'attore. Differentemente, nel processo amministrativo, per ragioni storiche nonché legate alla fisionomia nonché alla struttura dell'interesse legittimo, nella legittimazione tendono a fondersi e sono con-costitutivi non solo l'affermazione del diritto ma anche la sua titolarità del ricorrente (cfr. per una panoramica completa ed esaustiva del tema cfr. F. Saitta, La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione?, 31 ottobre 2019, in giustizia-amministrativa.it). Alla stregua dell'indirizzo richiamato, la Suprema Corte ha ritenuto che: - le circostanze prospettate dai ricorrenti incidentali ope exceptionis attenevano in realtà all'ambito della titolarità del diritto; - correttamente la Corte d'Appello ha ritenuto assorbita la questione, in applicazione del principio della ragione più liquida, rigettando la pretesa azionata per difetto della prova della colpa dell'Amministrazione nonché della prova del danno (cfr. per il principio di assorbimento per la ragione più liquida cfr. ex multis, Cass. Civ., II, n. 3260/1995; id., V, n. 7663/2012; e in giurisprudenza amministrativa, ex plurimis, Cons. St., Ad. Plen. 5/2015; id., V, n. 4279/2022; id., VI, n. 3176/2016); - conseguentemente, il Giudice di legittimità ha ritenuto inammissibile il ricorso incidentale condizionato, in quanto la parte vittoriosa nel giudizio di merito ha sollevato questioni rimaste assorbite, ancorché in virtù del principio cd. della ragione più liquida, non essendo ravvisabile alcun rigetto implicito, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al Giudice di rinvio (cfr. ex multis, Cass. Civ. nn. 15893/2023, 18832/2021, 2334/2020, 19503/2018, 28995/2018). Rimane comunque fermo per il Giudice del rinvio l'obbligo di riesaminare la questione che – stando a quanto sembra emergere - non lascia grandi margini per la condanna dell'Amministrazione al risarcimento del danno. 13.2 - Quanto all'eccezione relativa al difetto della procura e alla mancanza di certezza sull'identità della parte attrice, questa sì di natura processuale, la Suprema Corte ha ritenuto sufficiente richiamarsi e dare continuità al consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza (cfr. Cass. Civ., nn. 6907/2024, 10946/2023, 30769/2021, 2343/2019, 25154/2018, 7406/2014, n. 21424/2014). Di qui l'infondatezza del mezzo. Vien da sé che anche in questo caso tali questioni dovranno essere puntualmente esaminate dal Giudice del rinvio in via preliminare rispetto al merito. Conclusioni In definitiva, l'aspetto di maggior interesse dell'ordinanza in commento risiede, ad avviso dello scrivente, non tanto nelle statuizioni relative ai presupposti dell'obbligo risarcitorio, la cui valutazione è stata rimessa in via ultimativa al giudizio di rinvio per profili cruciali quali la valutazione della colpa dell'Amministrazione, la liquidazione del danno oltre alle questioni testé richiamate. La rilevanza della pronuncia in chiave sistematica e applicativa va invece ravvisata in considerazione della portata delle affermazioni di principio compiute dalle Sezioni Unite, che – al di là dei vari nodi problematici in precedenza illustrati - hanno introdotto punti cardine per l'esercizio, da parte dello Stato italiano, dell'attività del soccorso in mare dei migranti. Il riferimento è alle affermazioni: i) sulla rilevanza e sulla latitudine dei diritti fondamentali dei migranti; ii) sulla loro preminenza rispetto ad ogni altra esigenza pubblica, preminenza che toccherà all'Amministrazione calibrare nell'esercizio della discrezionalità tecnica riconosciutale; iii) sul principio di effettività della tutela giurisdizionale e sulla sottoposizione dello Stato al sindacato giurisdizionale, anche a fronte di attività latamente discrezionali e ispirate da motivi politici. In questo senso, la Suprema Corte, ponendosi in una linea di sostanziale coerenza con gli orientamenti del Consiglio di Stato nella pronuncia n. 1615/2025, di qualche mese precedente, ne ha sviluppato tutte le implicazioni, andando oltre, nell'intento di fare chiarezza in un ambito complesso e - a dispetto di quanto ritenuto dall'ordinanza - privo di reali punti fermi di natura giuspositiva. Sia consentito soggiungere che questa incertezza è stata vieppiù acuita e aggravata: i) dalle condotte di inerzia degli Stati investiti in via principale dell'obbligo di soccorso, cui l'Italia ha in modo commendevole supplito in via sussidiaria e surrogatoria allo scopo di preservare la vita e l'incolumità dei migranti in mare; ii) dalla mancanza, in sede europea, di posizioni sufficientemente univoche sulla gestione dei flussi migratori e la ripartizione dei migranti sbarcati. In questo contesto, la lettura congiunta dell'ordinanza in commento e della sentenza del Consiglio di Stato n. 1615/2025 restituisce un quadro che contribuisce: i) a rendere meno oscuro e meno indecifrabile il quadro normativo regolante l'attività del soccorso in mare dei migranti; ii) a definire in modo più puntuale la natura e lo statuto giuridico dell'atto di individuazione del “porto sicuro”; iii) a riempire di qualche contenuto concreto la clausola relativa allo sbarco dei migranti soccorsi, che deve avvenire “nel più breve tempo ragionevolmente possibile”. Sono desumibili dalle due decisioni surrichiamate alcune coordinate conformative della successiva azione amministrativa quanto ai tempi e ai parametri per individuare la nozione, altrimenti incerta, di “porto sicuro”, cui l'Amministrazione dovrà conformarsi onde non incorrere nell'annullamento dei provvedimenti emessi e nelle connesse conseguenze risarcitorie; ciò sempre che non si opti – anche previa stipula di accordi internazionali (o quanto meno in sede UE) volti a regolare più compiutamente il fenomeno migratorio - per la ridefinizione e per l'aggiornamento della disciplina normativa interna, ad oggi contenuta in atti di varia natura e caratteristiche, così da cercare de jure condendo un difficile e problematico contemperamento fra diritti dei migranti e interesse pubblico alla corretta regolazione dei flussi migratori. |