Solo l’intenzione inequivoca di chiedere la decisione collegiale impedisce l’estinzione del giudizio ex art. 380-bis c.p.c.

Roberto Succio
06 Maggio 2025

La sentenza in commento chiarisce che l'istanza di decisione della parte ricorrente ex art. 380-bis c.p.c. debba necessariamente contenere una richiesta di decisione del merito cassatorio, altrimenti il giudizio si estingue

Massima

L'istanza di decisione prevista dall'art. 380-bis c.p.c., pur potendo essere contenuta in un atto avente anche altre finalità (nella specie ricorso avverso diniego di condono) deve necessariamente contenere una richiesta di decisione del merito cassatorio nonostante la presenza di una proposta di definizione accelerata, non potendo la richiesta ritenersi implicita nell'impulso sotteso al diverso atto, attesa la differente finalità dello stesso.

Il caso

A fronte della proposta di definizione accelerata del giudizio depositata dal Consigliere delegato a mente dell'art. 380-bis c.p.c., nella quale era rilevato in particolare il mancato deposito del ricorso in cassazione da parte del contribuente ai sensi dell'art. 369 c.p.c., uno dei ricorrenti proponeva ricorso avverso il provvedimento di diniego adottato dall'Agenzia delle Entrate nei confronti dell'istanza di definizione agevolata spiegata dal medesimo. Avverso tale ultimo ricorso l'Amministrazione Finanziaria depositava apposito controricorso. La Corte, in sede di decisione collegiale, dichiarava l'estinzione del giudizio.

La questione

Il sub-procedimento instaurato con la proposta di definizione accelerata, previsto dall'art. 380-bis c.p.c., prevede che nel termine di quaranta giorni dalla comunicazione della proposta la parte proponga istanza di decisione, in mancanza dovendosi intendere il ricorso come rinunciato ai sensi dell'art. 391 c.p.c. e derivandone l'estinzione del giudizio. Tale istanza, pur non dovendo essere caratterizzata da formule speciali, deve avere l'immancabile contenuto della richiesta di decisione. Pertanto, essa non può certo essere identificata nel ricorso depositato dal ricorrente avverso il provvedimento di diniego di definizione agevolata della controversia emesso dall'Amministrazione Finanziaria.

Quest'ultimo, infatti, è incentrato esclusivamente sul diniego di definizione agevolata, che impugna e contesta; nondimeno – osserva il Collegio – esso «ignora totalmente la proposta di definizione accelerata, e pertanto al ricorso in parola non può riconoscersi il contenuto di istanza di decisione ai sensi dell'art. 380-bis, secondo comma, c.p.c.».

Infatti, in quanto diretto a aggredire il diniego di definizione agevolate della controversia tributaria, emesso dall'Amministrazione Finanziaria che è parte del giudizio pendente di fronte alla Corte di cassazione, esso non contiene alcuna valutazione, sia pure implicita, circa il possibile e ventilato esito infausto del ricorso. Da tale difetto deriva, osserva ancora il provvedimento in nota, la mancanza del «conseguente elemento volitivo del ricorrente circa la richiesta di decisione del merito nonostante la presenza di una proposta di definizione accelerata, che compete a questa Corte, secondo lo schema della citata disposizione processuale, come modificata dal d.lgs. n. 149/2022». Né, sotto tale profilo, rileva la richiesta di accertamento degli speciali presupposti per l'accesso alla definizione agevolata delle liti pendenti ai sensi della l. n. 197/2022, per assunta infondatezza delle ragioni di diniego opposte dall'Agenzia, che è ritenuta dalla Corte elemento e circostanza del tutto difforme dalla manifesta volontà di far decidere il ricorso – contenente elementi di merito cassatorio che l'istanza di decisione per esser tale deve rinnovare e nei quali espressamente insistere – da parte del Collegio.

Le soluzioni giuridiche

La conclusione alla quale addiviene la pronuncia in nota è del tutto conforme ai precedenti del Giudice di Legittimità.

In precedenza, trattando il caso in cui a seguito dalla proposta del Consigliere delegato venne depositata solo una memoria illustrativa, reiterativa delle difese poste in ricorso, ha negato all'atto medesimo effetto di implicita richiesta di decisione (Cass. civ., sez. III, 29 gennaio 2024, n. 2614), negandogli quindi valore di atto impeditivo della formazione della fattispecie estintiva, che può dunque ricollegarsi solo ad un atto che comunque contenga «il già segnalato elemento volitivo che il legislatore espressamente richiede». Deve quindi trattarsi di un atto nel quale, anche senza confrontarsi con le argomentazioni poste a base della proposta, il ricorrente in modo inequivoco manifesta la volontà che il ricorso sia sottoposto alla decisione del Collegio, quindi da tale organo scrutinati i motivi ed emesso il provvedimento decisorio che chiude il giudizio.

Del tutto chiaro quindi il principio di diritto che la Corte enuncia: «l'istanza di decisione prevista dall'art. 380-bis cod. proc. civ., pur potendo essere contenuta in un atto avente anche altre finalità (nella specie ricorso avverso diniego di condono) deve necessariamente contenere una richiesta di decisione del merito cassatorio nonostante la presenza di una proposta di definizione accelerata, non potendo la richiesta ritenersi implicita nell'impulso sotteso al diverso atto, attesa la differente finalità dello stesso».

Senza poi ignorare il contenuto concreto dell'atto depositato a fronte della proposta di definizione accelerata del giudizio, la Corte precisa che «il ricorso avverso il diniego non può essere neppure delibato, in quanto - sebbene il giudizio al momento della sua proposizione fosse pendente ancorché affetto da improcedibilità – con l'inutile decorso del termine di quaranta giorni dalla comunicazione della proposta di definizione accelerata, esso si è estinto, non avendo il relativo provvedimento che effetto dichiarativo».

Si tratta di una affermazione pienamente conseguente al principio dapprima enunciato: la rinuncia al ricorso per cassazione – alla quale la mancata presentazione dell'istanza di decisione viene sovrapposta dall'art. 380-bis, che la equipara alla situazione di cui all'art. 319 c.p.c. - si perfeziona in forza dell'inutile decorso del termine di quaranta giorni dalla comunicazione della proposta alla parte ricorrente.

Osservazioni

Dall'ordinanza in nota risulta confermata la necessità che l'istanza diretta a ottenere la decisione da parte del Collegio sia – per quanto certo non necessaria alcuna formula sacramentale – quantomeno chiara nella intenzione manifestata dal ricorrente.

Anche se le modalità di tipizzazione sociale, in un contesto processuale particolare come quello di Legittimità, possono certo variare, la Corte mostra un giusto rigore nel richiedere la manifesta volontà di far decidere il ricorso ad opera del Collegio. Il che coincide non con la sola volontà di insistere nei motivi – operazione alla quale si provvede anche con la memoria, la quale li illustra approfondendone i profili già enunciati nel ricorso – ma che presuppone l'esame della proposta, da un lato, e l'intenzione di volerla sottoporre all'esame del Collegio per far controllare in quella sede la sua resistenza di fronte agli argomenti del ricorso per cassazione.

E' ormai piuttosto centrale, nella recente giurisprudenza formatasi sull'argomento, la considerazione secondo la quale l'istanza di decisione, per essere tale, deve veicolare un atto di volontà, la cui origine sorge a fronte della proposta – che ha una sorta di funzione di provocatio ad opponendum – e che quale contenuto minimo deve essere munita dell'intenzione di far pronunciare il Collegio sulla conferma o meno della proposta, anche rispondendo con documentazione a un profilo di improcedibilità da essa rilevato.

Si è ritenuto (Cass. civ., sez. I, ord., 3 marzo 2025, n. 5580) che in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi ex art. 380-bis c.p.c., ove la relativa proposta attenga alla rilevata improcedibilità del ricorso per mancato deposito della certificazione di conformità del provvedimento impugnato e l'intimato non si sia difeso con controricorso, il ricorrente può presentare istanza per la decisione della causa e, con essa, depositare la certificazione mancante, svolgendo la proposta l'effetto di sollecitare il contraddittorio sulla presenza di vizi formali del processo ancora sanabili ma, fissata l'udienza camerale e intervenuta la sanatoria, non può applicarsi l'ultima proposizione dell'art. 380-bis, comma 3, c.p.c., poiché il giudizio non viene definito in conformità alla proposta.

Analoga centralità della volontà di decisione della controversa nella sede collegiale manifesta quell'orientamento secondo il quale (Cass. civ., sez. III, ord., 9 gennaio 2025, n. 511) in tema di procedimento per la decisione accelerata ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., in caso di pluralità di ricorsi avverso la medesima sentenza, ove la proposta di decisione riguardi sia il ricorso principale che quello successivo e l'istanza di decisione sia depositata da una sola delle parti, l'impugnazione non coltivata - pur dovendo essere trattata in adunanza camerale unitamente all'altra, previa riunione ex art. 335 c.p.c. - va considerata rinunciata, con conseguente dichiarazione di estinzione del giudizio e inapplicabilità, alla parte non richiedente la decisione, dell'art. 96, commi 3 e 4, c.p.c. e del raddoppio del contributo unificato.

In tale pronuncia si esclude quindi ogni efficacia per così dire esterna rispetto al rapporto processuale tra ricorrente e Corte, che viene istradato su un binario esclusivo da parte della proposta, il cui contenuto va contrastato singolarmente da parte del ricorrente che ne è attinto, in una relazione nella quale altri ricorrenti, anche incidentali, non sono parti.

In altra fattispecie, (Cass. civ., sez. III, ord., 18 dicembre 2024, n. 33132) si è ritenuto che, ancora in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi ex art. 380-bis c.p.c., se l'istanza di decisione risulta priva dei requisiti previsti dalla legge, come nel caso in cui consista esclusivamente in un file contenente la procura a chiedere la decisione, il Collegio, fissata l'adunanza camerale, deve dichiarare estinto il giudizio ma, al contempo, non essendo questo definito «in conformità alla proposta» in esito ad un'istanza di decisione, non può applicare l'ultima proposizione del terzo comma dell'art. 380-bis c.p.c., né sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, di cui all'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, perché l'impugnazione non è rigettata o dichiarata inammissibile o improcedibile.

Viene qui ulteriormente confermata l'essenzialità dell'atto di volontà, che non può ritenersi chiaramente manifestato con il solo atto di conferimento dello ius postulandi non seguito dalla chiara manifestazione della richiesta di decisione da parte del procuratore ad litem.

L'ordinanza in nota offre l'occasione per ricordare che il legislatore della riforma Cartabia è intervenuto in materia di chiarezza e sinteticità degli atti processuali sia con disposizioni di carattere generale sia con disposizioni relative a singoli atti del processo. Esaminando qui solo le prime, basterà in questa sede il richiamo agli artt. 121 c.p.c. e 46 disp. att. c.p.c.

Il primo enunciato normativo, dopo la rubrica «libertà di forme» ha visto aggiungere le parole «chiarezza e sinteticità degli atti»; inoltre, alla previsione già enunciata secondo la quale «gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo» è stata affiancata la puntualizzazione in forza della quale «tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico».

Si tratta di una opportuna innovazione del tutto coerente con le direttive della l. delega n. 206/2021, che aveva demandato al Governo il compito di «prevedere che i provvedimenti del giudice e gli atti del processo per i quali la legge non richiede forme determinate possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo, nel rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità …» (art. 1, comma 17, lett. d), l. delega n. 206/2021).

Il provvedimento che qui si commenta costituisce attuazione giurisprudenziale dei ridetti principi, il contenuto e la funzione dei quali consiste nel ribadire – ferma restando l'inutilità, anzi, la natura controproducente di ogni superfetazione barocca – che gli atti del processo sono funzionali alla comprensione, da parte del giudice, delle situazioni e delle questioni che gli vengono sottoposte.

Ove, quindi, la legge processuale richiede una volontà come condizione processuale, quale atto d'impulso di un subprocedimento, la parte che deve manifestarla è onerata di rispettare il principio del clare loqui.

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