La giurisprudenza creativa oblitera la riserva di giurisdizione

05 Maggio 2025

A proposito del sequestro di cellulare da parte del P.M.

Premessa

Con una sentenza erudita e approfondita e alla quale non manca l'abilità dialettica, ma, a ben vedere, contraddittoria ed elusiva della riserva di giurisdizione, la Corte di cassazione giustifica l'ispezione informatica, la perquisizione e il sequestro del cellulare disposti dal pubblico ministero, anziché dal giudice, ricorrendo ad una giurisprudenza “creativa” che trasforma il tribunale del riesame da giudice del postumo ed eventuale controllo della legittimità del sequestro ad organo attuativo della riserva di giurisdizione.

La vicenda processuale

Il tribunale del riesame aveva respinto l'istanza di riesame contro il decreto di sequestro probatorio e di corrispondenza emesso dal pubblico ministero nei confronti del ricorrente, sottoposto a indagini per i reati di cui agli artt. 110, 353 e 353-bis c.p. in relazione a tre gare di appalto. In particolare, il pubblico ministero aveva disposto la perquisizione personale e locale nonché l'ispezione informatica dei sistemi informatici degli indagati, «operando in contraddittorio con le parti, al fine di accedere ai dati ivi presenti [..]», con il conseguente sequestro di «tutti i personal computers, strumenti informatici, supporti informatici, telefoni cellulari rinvenuti nella disponibilità, al fine di compiere gli ulteriori accertamenti, anche tecnici e informatici, idonei a stabilirne la provenienza ed acquisirne il contenuto in relazione ai fatti di cui al procedimento». Contestualmente all'esecuzione del decreto di perquisizione e sequestro il pubblico ministero aveva disposto una ispezione informatica dei supporti sequestrati al ricorrente e segnatamente di un telefono cellulare e di un IPad, nonché di 42 files acquisiti dal computer a lui in uso presso il luogo di lavoro, estratti attraverso parole chiave. Con successivo decreto, il pubblico ministero, richiamato il precedente decreto e dato atto di aver comunicato al difensore che avrebbe nominato un consulente tecnico per l'estrazione di copia forense dei dati contenuti nei supporti informatici sequestrati, aveva disposto il sequestro solo di quelli utili e rilevanti ai fini delle indagini, con conseguente restituzione, all'esito, di tutti i supporti informatici e di copia forense dei dati, una volta estrapolati quelli ritenuti utili.

Il difensore dell'indagato proponeva ricorso per cassazione avverso l'ordinanza reiettiva del “tribunale della libertà”, deducendo violazione di legge e difetto di motivazione. Nel ricorso, tra gli altri motivi, si richiamava la sentenza della Grande Camera della Corte giust. U.E., 4 ottobre 2024, C-548/21, che aveva osservato che le limitazioni dei diritti fondamentali in materia di vita privata e familiare e di protezione dei dati personali devono rispettare il principio di proporzionalità e possono essere apportate solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale riconosciuti dalla U.E. Nell'occasione, la Grande Camera aveva precisato che le disposizioni della Direttiva 2016/680/UE ostano a una normativa nazionale che autorizza ad accedere a dati contenuti in un telefono cellulare senza l'autorizzazione da parte di un giudice o di un organo amministrativo indipendente e Corte giust. U.E., Grande Camera, 2 marzo 2021, C-746/18, Prokuratuur aveva già in precedenza precisato che tale non può essere qualificato il pubblico ministero. Il ricorso osserva che il contrasto tra la disposizione di diritto interno, che consente al pubblico ministero la materiale apprensione dei dati personali contenuti in dispositivi elettronici (art. 253 e ss. c.p.p.) e il diritto europeo (Direttiva 2016/680/UE come interpretata dalla Grande Camera della Corte giust. nella menzionata sentenza del 4 ottobre 2024), avrebbe imposto la disapplicazione della prima.

La sentenza della Corte di cassazione: a) la motivazione dei decreti del P.M. sarebbe corretta

La pronuncia della Corte di cassazione, richiamando il precedente di Sez. III, 3.10.2019, n. 3465, Rv. 278542 – 01, osserva, in riferimento alla dedotta insussistenza del fumus commissi delicti, che il sequestro probatorio è un mezzo di ricerca della prova del reato per cui si procede e quindi il tribunale del riesame è chiamato a verificare la sussistenza dell'astratta configurabilità di tale reato, «non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla fondatezza dell'accusa, bensì con riferimento alla idoneità degli elementi, su cui si fonda la notizia di reato, a rendere utile l'espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti acquisibili senza la sottrazione del bene all'indagato o il trasferimento di esso nella disponibilità dell'autorità giudiziaria». Alla luce di tali principi, la Corte afferma che il tribunale del riesame ha adottato una motivazione logica e immune da vizi sia nel decreto di perquisizione, ispezione e sequestro, sia nel decreto di ispezione informatica. In conclusione, la sentenza afferma che è corretta la valutazione effettuata dal tribunale del riesame, in quanto i decreti, ritualmente portati a conoscenza della parte, andrebbero letti congiuntamente e di conseguenza è stata ritenuta infondata la doglianza difensiva secondo cui la condotta ascritta al ricorrente non sarebbe compiutamente descritta.

b) per la Grande Camera della Corte giust. U.E. solo il giudice autorizza l'accesso al contenuto del cellulare

Il motivo più pregnante del ricorso riguardava la richiesta di disapplicazione della normativa interna in materia di sequestro probatorio per contrasto con la Direttiva 2016/680, come interpretata dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, Grande Camera, con sentenza del 4 ottobre 2024, C-548/21. La difesa, infatti, aveva dedotto che l'art. 4 della Direttiva, come interpretato alla Corte, è in contrasto con la normativa interna (artt. 253 e ss. c.p.p.) che attribuisce, nel corso delle indagini preliminari, al pubblico ministero il potere di sequestrare dispositivi informatici.

Com'è noto, la Direttiva 2016/680 prevede «norme relative alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, incluse la salvaguardia e la prevenzione di minacce alla sicurezza pubblica».

A tale Direttiva è stata data attuazione nell'ordinamento interno con il d.lgs. 18 maggio 2018, n. 51, il cui art. 3, indicando i principi applicabili al trattamento di dati personali richiede che essi siano a) trattati in modo lecito e corretto; b) raccolti per finalità determinate, espresse e legittime e trattati in modo compatibile con tali finalità; c) adeguati, pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono trattati; d) esatti e, se necessario, aggiornati; devono essere adottate tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati; e) conservati con modalità che consentano l'identificazione degli interessati per il tempo necessario al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati, sottoposti a esame periodico per verificarne la persistente necessità di conservazione, cancellati o anonimizzati una volta decorso tale termine; f) trattati in modo da garantire un'adeguata sicurezza e protezione da trattamenti non autorizzati o illeciti e dalla perdita, dalla distruzione o dal danno accidentali, mediante l'adozione di misure tecniche e organizzative adeguate.

Osserva la sentenza de qua che, a ben vedere, né l'atto della U.E. né la normativa interna si riferiscono espressamente all'attività di raccolta della prova nel processo penale, che rimangono disciplinate dalle regole generali in materia di ispezione, perquisizione e sequestro. Ma la Corte di giustizia, con la sentenza 4 ottobre 2024 sopra indicata, rispondendo a una questione pregiudiziale posta dall'autorità giudiziaria austriaca che chiedeva se esistano e quali siano le condizioni poste dalla normativa dell'U.E., al fine della tutela dei diritti al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali (artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), perché la polizia possa accedere per finalità di indagine penale ai dati conservati in un telefono cellulare, aveva esteso le disposizioni della Direttiva 2016/680 al trattamento dei dati personali conseguenti al sequestro. La Corte giust. U.E. aveva precisato che l'art. 3, punto 2, della Direttiva definisce la nozione di «trattamento» come comprendente «qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l'ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come (…) l'estrazione, la consultazione» o ancora la «diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione», mentre il successivo art. 4 stabilisce che «Gli Stati membri dispongono che i dati personali siano: a) trattati in modo lecito e corretto; b) raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime e trattati in modo non incompatibile con tali finalità; c) adeguati, pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono trattati».

Secondo la menzionata sentenza 4 ottobre 2024 della Corte giust. U.E., il legislatore della U. E. ha inteso attribuire una portata ampia alla nozione di «trattamento», nel cui ambito rientra anche «un tentativo di accesso ai dati contenuti in un telefono cellulare, da parte delle autorità di polizia ai fini di un'indagine in materia penale». Nella citata sentenza 4 ottobre 2024, infatti, la Corte di Lussemburgo aveva precisato che, «ai sensi dell'articolo 4, § 1, lettera b), di tale direttiva, gli Stati membri dispongono che i dati personali siano raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime e trattati in modo non incompatibile con tali finalità. Quest'ultima disposizione sancisce il principio di limitazione delle finalità […]. Orbene, l'effettività di tale principio esige necessariamente che la finalità della raccolta sia determinata sin dalla fase in cui le autorità competenti tentano di accedere a dati personali, poiché un siffatto tentativo, qualora si riveli proficuo, è tale da consentire a tali autorità, in particolare, di raccogliere, estrarre o consultare immediatamente i dati in questione» (p. 73).

Secondo la medesima sentenza 4 ottobre 2024 della Corte giust. U.E., la Direttiva 2016/680, consente il trattamento dei dati, inteso nel senso sopra indicato, nell'ambito di un'indagine diretta alla repressione di un reato, a condizione che, in primo luogo, la limitazione dei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale che esso necessariamente implica sia “necessaria” – e «tale requisito non è soddisfatto quando l'obiettivo di interesse generale perseguito sia ragionevolmente conseguibile in modo altrettanto efficace con altri mezzi, meno pregiudizievoli» (p. 87). Inoltre, tale limitazione deve essere prevista dalla legge, requisito che implica che «la base giuridica che autorizza una simile limitazione ne definisca la portata in modo sufficientemente chiaro e preciso». Infine, tale limitazione ai diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale deve rispettare il criterio di proporzionalità, insito nella previsione di cui all'art. 4, lett. c), sopra riportato che richiede il rispetto, da parte degli Stati membri, del principio di «minimizzazione dei dati», che di quel criterio costituisce espressione (p. 79). Ma la più volte citata sentenza 4 ottobre 2024 precisa che, al fine di garantire che i presupposti per il trattamento dei dati siano rispettati, è necessario che un controllo intervenga prima di qualsiasi tentativo di accesso ai dati, salvi i casi di urgenza, in cui deve intervenire in tempi brevi e, soprattutto, che l'accesso  « sia subordinato a un controllo preventivo effettuato da un giudice o da un organo amministrativo indipendente » (p. 102).

Proprio sull'individuazione di tale organo la Corte giust. U.E. aveva già preso posizione quando è si è pronunciata sull'interpretazione dell'art. 15, § 1, della Direttiva 2002/58/CE, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, come modificata dalla Direttiva 2009/136/CE del 25 novembre 2009. In quell'occasione il quesito sottoposto alla Corte era se tale disposizione dovesse essere interpretata nel senso che il pubblico ministero potesse considerarsi come un'autorità amministrativa indipendente e la Corte non ha avuto esitazioni nel rispondere negativamente, rilevando che il requisito di indipendenza che l'autorità incaricata di esercitare il controllo preventivo deve soddisfare «impone che tale autorità abbia la qualità di terzo rispetto a quella che chiede l'accesso ai dati, di modo che la prima sia in grado di esercitare tale controllo in modo obiettivo e imparziale al riparo da qualsiasi influenza esterna. In particolare, in ambito penale, il requisito di indipendenza implica […] che l'autorità incaricata di tale controllo preventivo, da un lato, non sia coinvolta nella conduzione dell'indagine penale di cui trattasi e, dall'altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento penale. Ciò non si verifica nel caso di un pubblico ministero che dirige il procedimento di indagine ed esercita, se del caso, l'azione penale. Infatti, il pubblico ministero non ha il compito di dirimere in piena indipendenza una controversia, bensì quello di sottoporla, se del caso, al giudice competente, in quanto parte nel processo che esercita l'azione penale» (Corte giust. U.E., Grande Camera, 2 marzo 2021, C-746/18, Prokuratuur; p. 54-57).

Ma tale interpretazione garantista non è seguita dalla Corte di cassazione, che anche di recente, in un caso in cui il ricorrente deduceva l'incompatibilità della normativa interna con i principi stabiliti dalla più volte menzionata sentenza 4 ottobre 2024 della Corte giust. U.E., ha ritenuto che il pubblico ministero sia qualificabile come organo amministrativo indipendente, in quanto «autorità giudiziaria che nell'esercizio delle sue funzioni pubbliche procede alle indagini secondo le specifiche regole dettate dal legislatore idonee a garantire anche i diritti dell'indagato» (Cass. pen., sez. V, 28 gennaio 2025, n. 8376, Longo, non mass.). Ma degradare il pubblico ministero ad “organo amministrativo”, sia pure indipendente, pare una impropria e inaccettabile deminutio. Ecco, pronunce come questa fanno comprendere perfettamente le ragioni della necessità di abrogare l'equivoca locuzione di “autorità giudiziaria”, che ancora compare negli artt. 13,15,21 e 109 Cost. e chiarire che il garante dei diritti fondamentali della persona è il giudice e non certo il pubblico ministero.

La sentenza in esame non può, quindi, che concludere nel senso che l'accesso ai dati contenuti in un dispositivo informatico a fini di indagine penale richiede il controllo di un giudice o di un organo amministrativo indipendente, che – secondo la Grande Camera della Corte g iust . U.E. – devono essere terzi rispetto all'organo che richiede l'accesso, per cui tale funzione di controllo non può essere esercitata dal pubblico ministero , per la sua natura di parte processuale, a prescindere dal suo statuto di autonomia.

c) per la Corte di cassazione le disposizioni della U.E. non potrebbero stabilire l'inutilizzabilità della prova

Dopo aver riconosciuto che, nel caso di specie, il trattamento dei dati è stato disposto con decreto del pubblico ministero, anziché del giudice, e quindi si pone il problema di individuare la sanzione processuale, la sentenza in commento, premette però che la sentenza della Grande Camera della Corte giust. 30 aprile 2024- C-670/22, riferita al caso dell'acquisizione di prove dall'estero nella vicenda “Encrochat”, escluderebbe che una regola di divieto probatorio possa derivare direttamente dalle disposizioni della U.E. La Grande Camera aveva infatti osservato che «…. allo stato attuale del diritto dell'Unione, spetta, in linea di principio, unicamente al diritto nazionale determinare le norme relative all'ammissibilità e alla valutazione, nell'ambito di un procedimento penale, di informazioni e di elementi di prova che sono stati ottenuti con modalità contrarie al diritto dell'Unione» (p. 128). Ma la suprema Corte si limita a leggere la premessa del ragionamento svolto dai giudici di Lussemburgo, perché, sulla questione se il principio di effettività imponga al giudice penale nazionale di espungere, nell'ambito di un procedimento penale avviato a carico di una persona sospettata di atti di criminalità, informazioni ed elementi di prova che siano stati ottenuti in violazione delle prescrizioni del diritto dell'Unione, la sentenza prosegue affermando che, «secondo una costante giurisprudenza, in assenza di una normativa dell'Unione in materia, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, ai sensi del principio dell'autonomia procedurale, stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell'Unione, a condizione tuttavia che esse non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell'Unione (principio di effettività) ». Svolta tale premessa, la Grande Camera osserva però che «non si può ignorare che l'articolo 14, paragrafo 7, della direttiva 2014/41 impone espressamente agli Stati membri di garantire, fatta salva l'applicazione delle norme procedurali nazionali, che, in un procedimento penale nello Stato di emissione, siano rispettati i diritti della difesa e sia garantito un giusto processo nel valutare le prove ottenute mediante l'ordine europeo di indagine, il che comporta che un elemento di prova sul quale una parte non sia in grado di svolgere efficacemente le proprie osservazioni debba essere escluso dal procedimento penale». Pertanto, alla luce di tutti i motivi che precedono, la Grande Camera sentenzia dichiarando che l'art. 14, § 7, della direttiva 2014/41 deve essere interpretato nel senso che «esso impone al giudice penale nazionale di espungere, nell'ambito di un procedimento penale avviato a carico di una persona sospettata di atti di criminalità, informazioni ed elementi di prova se tale persona non è in grado di svolgere efficacemente le proprie osservazioni su tali informazioni ed elementi di prova e questi ultimi siano idonei ad influire in modo preponderante sulla valutazione dei fatti» (Corte giust. U.E., Grande Camera, 30 aprile 2024, C-670/22, p. 131).

È grave che la Corte di cassazione non si avveda che proprio quella stessa sentenza da essa citata e proprio con riferimento al mancato rispetto dei diritti di difesa riconosce ed applica la sanzione dell'inutilizzabilità probatoria, da eseguire con la fisica “espunzione” dell'atto dal fascicolo processuale.

Invece la sentenza in esame osserva che l'inutilizzabilità consegue unicamente alla violazione di uno specifico divieto probatorio, che non è previsto per il caso in esame dall'art. 191 c.p.p. e quindi esclude l'inutilizzabilità del sequestro del cellulare disposto dal pubblico ministero senza il provvedimento del giudice, violazione che ritiene possa comportare solo la nullità di tale prova. Ma è sufficiente osservare che un atto processuale compiuto da un soggetto incapace è atto giuridicamente inesistente.

d) la nullità del sequestro del cellulare sarebbe insussistente per mancanza di un effettivo pregiudizio per la difesa

Ma allo strabismo interpretativo, la sentenza aggiunge una nota di creatività perché, seguendo una granitica giurisprudenza delle Sezioni unite, afferma che si tratta di “un effetto sostanziale, che ricorre solo in caso di concreta impossibilità di difendersi”. In altre parole, recependolo dal diritto processuale civile ma così eludendo il principio di legalità, si afferma ripetutamente che, pur di fronte ad una conclamata violazione di legge sanzionata esplicitamente con la nullità, questa non sussiste se la parte non dimostra che le ha provocato in concreto un pregiudizio effettivo.

Si registra una serie impressionante di precedenti in tal senso:

Cass. pen., sez. un., 27 ottobre 2004, n. 119/2005, Palumbo (che si ispira a Sez. Un., 27.2.2002, n. 17179, Conti, Rv. 221403 ed a Cass. pen., sez. II, 9 luglio 2003, n. 35358, Ferrara, Rv. 225361), secondo la quale, in tema di notificazione della citazione all'imputato, la nullità assoluta e insanabile prevista dall'art. 179 c.p.p. ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell'atto da parte dell'imputato;

Cass. pen., sez. un., 17 ottobre 2006, n. 10251/2007, Michaeler, Rv. 235697, secondo la quale, in base al vigente sistema processuale, appare legittima una lettura non rigorosamente formalistica degli effetti connessi ad un atto processuale nullo, che in concreto non ha dato luogo ad un “danno” misurabile e non ha aggredito il nucleo della garanzia oggetto di tutela;

Cass. pen., sez. un., 27 marzo 2008, n. 19602, Micciullo, Rv. 239396, per la quale la nullità della notifica all'imputato eseguita a norma dell'art. 157, comma 7-bis, c.p.p. presso il difensore di fiducia, anziché al domicilio dichiarato o eletto, è una nullità di ordine generale a regime intermedio che deve ritenersi sanata quando risulti provato che non ha impedito all'imputato di conoscere l'esistenza dell'atto e di esercitare il diritto di difesa;

Cass. pen., sez. un., 29 settembre 2011, Rossi, n. 155/2012, Rv. 251497, in cui si è affermato che il diniego di termini a difesa, ovvero la concessione di termini ridotti rispetto a quelli previsti dall'art. 108, comma 1, c. p.p., non possono dar luogo ad alcuna nullità quando la relativa richiesta non risponda ad una reale esigenza difensiva e l'effettivo esercizio del diritto alla difesa tecnica dell'imputato non abbia subito alcuna lesione o menomazione; 

v. pure, più recentemente, Cass. pen., sez. V, 7 aprile 2022, n. 21479, Margarita, secondo cui il giudizio d'appello, svoltosi proprio sulla base di impugnazione, con rito emergenziale COVID 19 in udienza non partecipata, ha consentito la regolare difesa dell'imputato, mediante deposito di conclusioni scritte da parte del difensore di fiducia nominato, debitamente annotate in sentenza ed analisi compiuta di tutte le sue censure.

Insomma, detto altrimenti e più semplicemente, il giudice si sovrappone alla valutazione già operata dal legislatore in ordine alla gravità della lesione del diritto  ed esige un quid pluris e cioè che la parte dimostri che dalla violazione è realmente seguito un pregiudizio per la difesa, superando così la valutazione già operata dal legislatore e quindi sostituendosi ad esso (v. in argomento le stimolanti osservazioni di V. Giglio, La teoria del “pregiudizio effettivo”: quando il giudice si fa legislatore, in Terzultima fermata, 2.2.2024).

La sentenza in commento, pur riconoscendo che, allo stato, la normativa interna non risponde alla previsione della citata Direttiva, offre una soluzione in linea con la giurisprudenza corrente, laddove afferma che «nel caso concreto, però, i diritti della difesa ad avere una valutazione giurisdizionale non risultano pregiudicati poiché sul sequestro si è pronunciato il Tribunale per il riesame, adito ai sensi dell'art. 324 c.p.p.». La pronuncia aggiunge che «la richiesta di riesame, che viene attivata senza alcuna formalità e che impone la decisione in tempi strettissimi, innesta una procedura particolare, diversa da quella dei normali atti di impugnazione, in quanto il Tribunale deve apprezzare, sotto il profilo della legittimità e del merito, pur senza specifiche doglianze dell'interessato, la correttezza del provvedimento, la congruità e la comparazione degli interessi in gioco (esigenze probatorie e esigenze di tutela della riservatezza)».

La Corte conclude perciò che, «nel caso di specie, il ricorrente non abbia subito alcuna lesione dei propri diritti fondamentali al rispetto della vita privata e dei dati personali, perché vi è stata una valutazione del giudice del riesame sul sequestro, effettuata con pieni poteri di cognizione e ciò ha garantito un esame effettivo e indipendente circa la necessità, proporzionalità e minimizzazione dell'acquisizione dei dati». La conferma della corretta scelta operata sarebbe anche la considerazione che, «una volta intervenuta, come nel caso di specie è avvenuto, la valutazione del giudice terzo e non del soggetto, il P.M., interessato quale parte alla raccolta della prova, non residuano ambiti di interesse a un provvedimento di annullamento. Difatti, il sistema non prevede che un eventuale annullamento del provvedimento di sequestro, non intervenuto in seguito alla valutazione del merito della contestazione, comporti una preclusione alla sua immediata reiterazione. Salvo casi specifici (ipotesi della mancata effettuazione dei termini dell'interrogatorio ex art. 294 c.p.p.art. 302 c.p.p. – e della mancata trasmissione degli atti ai sensi articolo 309, comma 10, c.p.p.), infatti, l'annullamento dei provvedimenti sia personali che reali non determina alcuna preclusione o limite a una nuova immediata riemissione del provvedimento».

In effetti, il codice non prevede una preclusione ad un successivo provvedimento, questa volta del giudice, che sarebbe sanante del primo, ma non lo prevede per la assai semplice ragione che un simile espediente cozzerebbe con il principio aristotelico di non contraddizione, accolto anche nel nostro ordinamento, che aggiungerebbe al danno la beffa, perché consentirebbe di ripetere un atto già dichiarato nullo, come se la già consumata violazione del diritto fondamentale della persona non fosse mai avvenuta.

La decisione è stata pertanto quella del rigetto del ricorso, non prima, però, di un ennesimo volo pindarico affermando che «nulla impedisce, ovviamente, che per il futuro, proprio al fine di adeguarsi all'interpretazione della Corte di giustizia, il P.M. richieda l'autorizzazione al G.i.p., ovvero, nei casi di urgenza, richieda una successiva convalida»: ma non dovrà essere il legislatore ad introdurre una disposizione ad hoc?

Conclusioni critiche

È fin troppo facile osservare che il vaglio giurisdizionale deve essere, di regola, preventivo (in forma di autorizzazione) e solo in caso d'urgenza successivo (convalida). È la menzionata sentenza 4.10.2024 della Grande Camera della Corte giust. U.E. a statuire che, al fine di garantire che i presupposti per il trattamento ai dati siano rispettati, è necessario che l'accesso «sia subordinato a un controllo preventivo effettuato da un giudice o da un organo amministrativo indipendente» (p. 102 della sentenza). Tale controllo deve intervenire prima di qualsiasi tentativo di accesso ai dati, salvi i casi di urgenza, in cui deve intervenire in tempi brevi.

Secondo la giurisprudenza “creativa” della Corte, invece, la garanzia della riserva di giurisdizione sarebbe sempre successiva e, soprattutto, sarebbe lasciata all'iniziativa dell'interessato, il quale, se non propone richiesta di riesame, viene privato del controllo giurisdizionale sull'ingerenza nel suo diritto fondamentale.

Dispiace osservare che la Suprema Corte, pronunciando sentenze come questa, dimentichi che la riserva di giurisdizione è una garanzia ineliminabile della persona e non un diritto eventuale e successivo.

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