L’assicurazione contro il furto di un bene concesso in leasing tra oneri di allegazione e clausole di delimitazione del rischio assicurato

14 Aprile 2025

L'utilizzatore di un bene concesso in leasing, che sia stato oggetto di furto, è legittimato ad agire in giudizio per chiedere che l'impresa di assicurazione, con la quale si era assicurato contro questo rischio, sia condannata a pagare l'indennizzo? E, se legittimato, ha diritto alla liquidazione dell'indennizzo qualora, nonostante la polizza preveda l'obbligo di predisporre un idoneo servizio di sorveglianza, abbia omesso di adottare questa cautela?

Massima

Il principio di cui all'art. 1900 c.c. (secondo il quale l'assicurazione non si estende ai rischi provocati volontariamente e con colpa grave del beneficiario) trova applicazione anche quando la condotta dell'assicurato caratterizzata dal dolo o dalla colpa grave non sia stata la causa unica del verificarsi dell'evento dannoso, in quanto, ai fini del nesso causale fra la detta condotta ed il danno, trova applicazione il principio della conditio sine qua non, temperato da quello della regolarità causale, secondo il disposto degli artt. 40 e 41 c.p., con la conseguenza che, quand'anche l'evento fosse derivato da una pluralità di comportamenti commissivi od omissivi, tra cui il comportamento colposo dell'assicurato, per escludere l'estensione della polizza sarebbe stato sufficiente rilevare che, se detto comportamento non si fosse verificato, l'evento non si sarebbe prodotto.

Nel caso di assicurazione contro il rischio del furto di un bene concesso in locazione finanziaria (c.d. leasing), il difetto di specificità nell'allegazione degli elementi atti a comprovare la legittimazione ad agire dell'attrice che chieda la liquidazione dell'indennizzo, quando questa non è la proprietaria ma la mera utilizzatrice del bene oggetto di furto, ridonda in difetto di prova di una condizione dell'azione che, in carenza di contrario giudicato interno esplicito sul punto, può essere rilevato per la prima volta anche in sede di legittimità, quale ragione di inammissibilità, se non della domanda originaria, quanto meno del ricorso in cassazione.

Non è implausibile l'interpretazione data dalla Corte di merito al contenuto di una polizza, con la quale era stata assicurata contro il furto una imbarcazione concessa in locazione finanziaria e che poneva a carico dell'assicurato l'obbligo di predisporre un idoneo servizio di sorveglianza (quale impianto di antifurto o GPS satellitare) quando l'imbarcazione si trovava fuori da un porto e senza persone a bordo, laddove ha ritenuto che questa clausola impone semplicemente l'osservanza da parte dell'assicurato di regole di comune diligenza che, quand'anche non fossero state evidenziate specificamente nel contratto ai sensi degli artt. 166 cod. ass. e 1341, comma 1 c.c., integrano quel complesso di cure e cautele che l'assicurato doveva comunque impiegare per ottenere l'indennizzo, non potendosi addebitare all'assicuratore ogni rischio prescindendo da quelle ordinarie cautele atte a scongiurare il rischio assicurato, e ciò in conformità a quanto disposto dall'art. 1900 c.c., a mente del quale l'assicurazione non si estende ai rischi provocati volontariamente e con colpa grave dell'assicurato, tenendo un comportamento non consono a preservare il bene.

Il caso

La società Alfa subiva il furto di una imbarcazione da diporto ad essa concessa in leasing e che aveva assicurato contro questo rischio con l'impresa di assicurazioni Beta. Poiché quest'ultima negava ad Alfa il diritto alla liquidazione dell'indennizzo, la società utilizzatrice del bene ricorreva al Tribunale di Trani per sentirsi riconoscere il diritto in questione e per sentire condannare Beta al pagamento della somma di € 700.000 a titolo di indennizzo assicurativo. La domanda era rigettata tanto dal Tribunale quanto dalla Corte di appello di Bari, la cui sentenza è stata impugnata dalla società Alfa con ricorso in Cassazione ma che la Corte Suprema ha confermato, dichiarando inammissibile il gravame.

La questione

L'utilizzatore di un bene concesso in leasing, che sia stato oggetto di furto, è legittimato ad agire in giudizio per chiedere che l'impresa di assicurazione, con la quale si era assicurato contro questo rischio, sia condannata a pagare l'indennizzo? E, se è legittimato ad agire in giudizio, l'utilizzatore ha diritto alla liquidazione dell'indennizzo quando, nonostante la polizza preveda l'obbligo di predisporre un idoneo servizio di sorveglianza, abbia omesso di adottare queste cautele?

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha preliminarmente rilevato «un radicale difetto di specificità nell'allegazione degli elementi atti a comprovare la stessa legittimazione ad agire dell'originaria attrice, la quale è pacificamente non la proprietaria, ma la mera utilizzatrice del bene oggetto di furto: ciò che ridonda in difetto di prova di una condizione dell'azione e che, in carenza di contrario giudicato interno esplicito sul punto, può essere rilevato per la prima volta anche in sede di legittimità, quale ragione di inammissibilità, se non della domanda originaria, quanto meno del gravame oggi proposto».

Fatta questa premessa, che in concreto avrebbe comunque determinato il rigetto di entrambi i motivi oggetto del ricorso della società Alfa, la Corte li esamina ugualmente e li dichiara parimenti inammissibili.

Con il primo motivo la società Alfa ha censurato la decisione della Corte di appello di Bari, la quale avrebbe valorizzato la clausola delle condizioni generali di contratto, che escludeva la copertura assicurativa se l'imbarcazione – in caso di furto totale – si trovava al momento dell'evento «fuori da un porto o da un ormeggio autorizzati dall'autorità competente, senza persone a bordo e senza servizio di sorveglianza», senza adeguatamente considerare se detta clausola era conforme ai requisiti formali prescritti dall'art. 166 cod. ass. e, dunque, se la stessa poteva superare positivamente il vaglio dell'art. 1341, comma 1 c.c., a mente del quale «le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell'altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando la ordinaria diligenza».

La censura è disattesa dalla Suprema Corte, la quale preliminarmente osserva che la decisione impugnata è sorretta da un accertamento sottratto al suo sindacato, in quanto scevro da vizi logici e giuridici ed anzi tutt'altro che implausibile, perché la Corte territoriale ha ritenuto gravemente negligente il comportamento del legale rappresentante della società che aveva in leasing l'imbarcazione assicurata, il quale l'aveva lasciata – nonostante l'elevato valore commerciale – completamente priva di custodia e senza alcuna misura di effettiva cautela in uno specchio di mare isolato e di facile approdo da parte di malintenzionati, per di più senza considerare che l'approdo in una insenatura scarsamente attrezzata avrebbe dovuto suggerire una maggiore diligenza nella custodia predisponendo un servizio di sorveglianza che non poteva consistere nella mera chiusura a chiave sia del portello della detta imbarcazione sia dei motori di bordo.

Accertati questi fatti, la Corte di merito ha quindi rilevato che la polizza, imponendo all'assicurato di predisporre un idoneo servizio di vigilanza quando l'imbarcazione fosse fuori dal porto e senza persone a bordo, non richiedeva altro che l'osservanza di regole di comune diligenza, le quali – anche se non fossero state evidenziate specificamente nel contratto – «integrano quel complesso di cure e di cautele che l'assicurato doveva comunque impiegare per ottenere il proprio indennizzo, non potendosi addebitare all'assicuratore ogni rischio prescindendo da quelle ordinarie cautele atte a scongiurare il rischio assicurato»; tanto più alla luce dell'art. 1900 c.c., che esclude l'obbligo dell'assicuratore di indennizzare gli eventi che siano stati provocati volontariamente o con colpa grave del “beneficiario” che abbia tenuto un comportamento non adeguato alla preservazione del bene.

Sicché, ha concluso la Corte di Cassazione, il motivo è inammissibile perché:

  • l'interpretazione del contenuto della polizza non è affatto implausibile, e quindi sfugge al sindacato di legittimità;
  • non sono state censurate tutte le ragioni della decisione impugnata, ma solo alcune, e quelle non oggetto di critica sono singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico;
  • il principio di cui all'art. 1900 c.c. (secondo il quale l'assicurazione non si estende ai rischi provocati volontariamente e con colpa grave del beneficiario) trova applicazione anche quando la condotta dell'assicurato caratterizzata da dolo o dalla colpa grave non sia stata la causa unica del verificarsi dell'evento dannoso, in quanto, ai fini del nesso causale fra la detta condotta ed il danno, trova applicazione il principio della conditio sine qua non, temperato da quello della regolarità causale, secondo il disposto degli artt. 40 e 41 c.p., con la conseguenza che, quand'anche l'evento fosse derivato da una pluralità di comportamenti commissivi od omissivi, tra cui il comportamento colposo dell'assicurato, per escludere l'estensione della polizza, sarebbe stato sufficiente rilevare che, se detto comportamento non si fosse verificato, l'evento non si sarebbe prodotto.

Con il secondo motivo la società Alfa ha invece censurato la decisione della Corte di merito perché avrebbe fondato la statuizione di rigetto valorizzando altra clausola contrattuale, che escludeva l'indennizzo in caso di colpa grave del contraente e per insufficienza delle misure di protezione, senza considerare che l'impresa di assicurazione Beta aveva eccepito la applicazione della detta clausola solo in appello, in tal modo violando sia l'art. 2697 c.c. sia l'art. 345 c.p.c.

Ebbene, la Cassazione lo ha dichiarato inammissibile perché la società ricorrente ha denunciato la violazione dell'art. 2697 c.c., la quale però è configurabile – consentendo in tal modo una revisione della decisione in sede di legittimità – solo quando «il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull'onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l'onus probandi ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni»: e nella specie la società ricorrente in realtà solo apparentemente aveva denunciato la inosservanza del criterio legale di ripartizione dell'onere della prova, avendo in concreto sostenuto che la valutazione delle risultanze probatorie – riservata al solo giudice del merito – aveva condotto ad un esito non corretto.

Quanto alla violazione dell'art. 345 c.p.c., sempre dedotta da parte ricorrente con il secondo motivo, la Cassazione ha ritenuto inammissibile la censura perché, in spregio al principio di autosufficienza stabilito dall'art. 366, nn. 4 e 5 c.p.c., la società ricorrente non aveva neppure specificato se ed in quali termini aveva dedotto la novità della eccezione in grado di appello.

Osservazioni

L'ordinanza in esame offre almeno tre spunti di riflessione.

Innanzitutto, sembra che la Corte abbia colto l'occasione per ribadire che l'art. 1900 c.c. si applica anche quando il dolo o la colpa dell'assicurato non siano state la causa unica dell'evento dannoso, così dando continuità ad un principio già affermato in passato (Cass. civ., sez. III, 14 aprile 2005, n. 7763), sebbene la specifica questione non fosse stata neppure sollevata dalla società ricorrente.

Nessuno dei due motivi dichiarati inammissibili, infatti - ed almeno stando a quanto può desumersi dalle ragioni della decisione - aveva censurato la impugnata sentenza laddove non era stata adeguatamente valorizzata la idoneità del fatto del terzo ad interrompere il nesso causale tra evento e comportamento colposo (omissivo) dell'assicurato, che non aveva adottato le necessarie cautele per preservare il bene e metterlo al riparo dal pericolo di furto.

In secondo luogo, la Cassazione, condividendo l'iter argomentativo della Corte territoriale, sembra affermare implicitamente un altro non meno importante principio.

La Corte d'appello invero aveva statuito che, anche quando le condizioni generali di contratto non siano conformi agli oneri di forma stabiliti dall'art. 166 cod. ass. e, quindi, qualora alcune clausole non siano «state evidenziate specificamente nel contratto», tanto non basterebbe a decretarne la loro inefficacia ai sensi dell'art. 1341, comma 1, c.c. se la clausola in questione «stabilisce l'obbligo da parte dell'assicurato di predisporre un idoneo servizio di vigilanza (quale impianto di antifurto o GPS satellitare) quando (n.d.r. l'imbarcazione) si trovi fuori da un porto e senza persone a bordo», perché una clausola di tal fatta «evidenzia semplicemente l'osservanza da parte dell'assicurato di regole di comune diligenza», le quali «integrano quel complesso di cure e di cautele» cui l'assicurato è obbligato indipendentemente da qualsivoglia patto contrattuale ed in virtù di un principio di carattere generale stabilito dall'art. 1900 c.c..

Appare opportuno – a questo punto – qualche ulteriore specificazione.

L'art. 166 cod. ass. stabilisce che «il contratto e ogni altro documento consegnato dall'impresa al contraente va redatto in modo chiaro ed esauriente» (comma 1).

Il secondo comma della norma in esame prosegue stabilendo che «le clausole che indicano decadenze, nullità o limitazioni delle garanzie ovvero oneri a carico del contraente o dell'assicurato sono riportate mediante caratteri di particolare evidenza».

Quanto alla eventuale inosservanza di questi oneri formali, il Codice delle assicurazioni non prevede specifiche sanzioni.

Si applicheranno quindi le norme generali del Codice civile, alle quali espressamente rinvia l'art. 165 cod. ass. e, quindi, gli artt. 1341 e 1342 c.c.

A mente del primo comma dell'art. 1341 c.c., «le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell'altro, se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando la ordinaria diligenza»; a mente del secondo comma, sono comunque prive di effetto quelle clausole che, in quanto vessatorie, non siano state specificamente approvate per iscritto.

La giurisprudenza da tempo è oramai orientata a negare la natura vessatoria di tutte quelle clausole inserite nelle condizioni generali di polizza che, in luogo di escludere la responsabilità dell'assicuratore, delimitano l'oggetto del contratto ed il rischio assunto dall'assicuratore.

E tra queste sono pacificamente incluse quelle del tipo inserito nella polizza con la quale l'imbarcazione era stata assicurata contro il rischio del furto, ossia «le clausole che subordinano l'operatività della garanzia assicurativa all'adozione, da parte dell'assicurato, di determinate misure di sicurezza o all'osservanza di oneri diversi» (Cass. civ., sez. III, 8 giugno 2017, n. 14280).

Pertanto, se l'assicuratore viola l'art. 166 cod. ass., non richiamando l'attenzione del contraente mediante caratteri che evidenzino clausole che prevedano una limitazione della garanzia assicurativa, la inosservanza di detto dovere determina la inopponibilità della pattuizione all'assicurato se l'assicuratore non prova che questa, nonostante la omessa evidenziazione, era ugualmente conosciuta dall'assicurato o comunque conoscibile se avesse usato la ordinaria diligenza (Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2019, n. 15598).

Ebbene, l'ordinanza in esame, valorizzando – per farla propria – la motivazione della Corte territoriale, che aveva ritenuta superflua la specifica evidenziazione della clausola controversa perché questa, nella sostanza, non faceva altro che prevedere un dovere di diligenza nella protezione del bene cui l'assicurato è tenuto in forza della legge, ed in particolare modo ai sensi dell'art. 1900 c.c., sembra spostare la questione su un piano diverso.

Non più quello della formazione della volontà delle parti, in cui rileva la conoscibilità da parte del contraente debole di quelle clausole che, pur non essendo vessatorie, in qualche modo ne “vulnerano” la posizione contrattuale, ma quella della esecuzione del contratto, la quale soggiace ad altre e diverse regole ed in particolare alla norma di carattere generale che esclude l'obbligo dell'assicuratore di pagare l'indennizzo se prova che all'evento ha contribuito l'assicurato con dolo o con colpa grave.

Ciò non è privo di conseguenze.

Se è irrilevante l'eventuale inserimento nelle condizioni generali di contratto, senza l'osservanza di particolari accorgimenti grafici che la rendano evidente, di una clausola che delimiti l'oggetto della copertura assicurativa, anche prevedendo particolari doveri e cautele che deve assumere l'assicurato ai fini della operatività della garanzia assicurativa, si esporrà la parte debole del contratto al rischio di perdere il diritto all'indennizzo per effetto di una pattuizione la cui reale conoscenza o conoscibilità non dovrà essere neppure dimostrata dal contraente forte che quelle condizioni generali ha predisposto unilateralmente.

E tanto più questa conseguenza pare inaccettabile se poi l'inosservanza delle cautele, imposte dalla clausola della cui conoscenza effettiva da parte dell'assicurato non vi è certezza, sarà valutata per stabilire se quella specifica condotta omissiva costituisce colpa grave rilevante ai sensi dell'art. 1900 c.c.

Poiché, però, l'ordinanza in esame, affermando questi principi, ha sostanzialmente condiviso le motivazioni della Corte territoriale senza approfondire la questione, sarebbe auspicabile che la Suprema Corte ritornasse quanto prima sull'argomento per chiarire se l'inosservanza, da parte dell'assicurato, di determinate regole di condotta previste in polizza ai fini della operatività della garanzia assicurativa, sia valutabile come comportamento gravemente colposo anche qualora la clausola che le prevede non sia stata adeguatamente evidenziata dall'assicuratore.

Pare opportuno infine soffermarsi sul capo dell'ordinanza in esame con il quale la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso per «radicale difetto di specificità nell'allegazione degli elementi atti a comprovare la stessa legittimazione ad agire dell'originaria attrice, la quale è pacificamente non la proprietaria, ma la mera utilizzatrice del bene oggetto di furto».

La Corte non indica gli «elementi atti a comprovare la stessa legittimazione ad agire dell'originaria attrice» il cui radicale difetto di specificità in punto di allegazione si riflette sulla proponibilità della domanda perché non sarebbe soddisfatta una condizione dell'azione.

Dai fatti di causa si desumono i seguenti elementi:

  • la società Alfa era mera utilizzatrice della imbarcazione da diporto;
  • la impresa Beta aveva assunto l'obbligo di assicurare il rischio del furto;
  • le condizioni generali di contratto includevano una clausola che delimitava il rischio assicurato, escludendo l'obbligo di corrispondere l'indennizzo se l'evento si fosse verificato in assenza delle cautele e misure di protezione che l'assicurato aveva l'obbligo di adottare;
  • nei primi due gradi di giudizio era rimasta estranea alla controversia ogni questione relativa alla legittimatio ad causam.

Questi i fatti, la decisione della Corte pone una serie di interrogativi, cui è necessario premettere i principi che regolano il contratto di leasing e la ripartizione del rischio del perimento del bene tra concedente – proprietario e concessionario – utilizzatore.

La giurisprudenza era solita distinguere tra leasing traslativo o finanziario e leasing di godimento o operativo, individuando – sostanzialmente – la differenza nel valore residuo del bene alla scadenza del contratto: se questo era ancora elevato rispetto al prezzo di riscatto, ricorreva la prima ipotesi, se invece il bene era privo di valore apprezzabile ricorreva la seconda ipotesi (Corte app. Catania, 15 luglio 2022, n. 1492).

Tutto ciò aveva riflessi non trascurabili sulla disciplina applicabile nel caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell'utilizzatore poiché alla prima fattispecie erano applicabili le norme in materia di vendita con riserva di proprietà (Cass. civ., sez. III, 22 marzo 2022 n. 9210; Cass. civ., sez. VI, 26 aprile 2022, n. 13039) mentre alla seconda erano applicabili quelle sui contratti ad esecuzione continuata e periodica (Trib. Teramo, 18 dicembre 2019, n. 1212; Trib. Torino, 7 gennaio 2019, n. 29; Trib. Catania, 16 marzo 2018, n. 1220).

Le conseguenze, invece, dell'eventuale perimento del bene concesso in leasing erano normalmente regolate tra le parti addossando il rischio sull'utilizzatore, che dunque rimaneva obbligato a pagare le rate a scadere con diritto del concedente di trattenere anche quelle già scadute e pagate: e questa clausola era stata considerata valida dalla giurisprudenza (Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2018, n. 11259 e Cass. civ., sez. III, 23 giugno 2009, n. 14619 con particolare riguardo al leasing traslativo e, più in generale, Cass. civ., sez. III, 11 febbraio 1997, n. 1266).

In difetto di clausole negoziali che avessero regolato i rapporti contrattuali in caso di perimento del bene, il rischio sarebbe verosimilmente gravato comunque sull'utilizzatore, che quindi non si sarebbe liberato dall'obbligo di pagare i canoni residui o perché, in caso di leasing traslativo, si sarebbe applicato analogicamente l'art. 1523 c.c. dettato in materia di vendita con riserva di proprietà (in tal senso, Trib. Bergamo, 7 settembre 1994) ovvero perché, in caso di leasing di godimento, la fattispecie sarebbe stata regolata dall'art. 1588 c.c. dettato in materia di locazione, ai sensi del quale il conduttore risponde della perdita e del danneggiamento della cosa se non prova che questi fatti sono accaduti per cause a lui non imputabili.

Questa tradizionale distinzione è oramai definitivamente superata perché il legislatore ha “normato” il leasing finanziario disciplinando espressamente gli effetti della risoluzione del contratto nel caso di inadempimento dell'utilizzatore (comma 138, l. n. 124/2017) e la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che la suddetta distinzione rimane valida solo per i contratti stipulati e che siano stati risolti in epoca anteriore alla l. n. 124/2017 (Cass. civ., sez. I, 4 novembre 2021, n. 31834).

La novella legislativa, se per un verso ha regolato gli effetti della risoluzione del contratto nel caso di inadempimento dell'utilizzatore, nulla ha previsto nei casi di perimento del bene, se non che sull'utilizzatore si trasferiscono tutti i rischi, anche quelli del perimento (comma 136, l. n. 124/2017).

Vi è da chiedersi, a questo punto, se tanto prima della novella legislativa del 2017 quanto dopo sussisteva e sussiste l'interesse dell'utilizzatore, ai sensi dell'art. 1904 c.c., ad assicurare il bene oggetto di leasing contro il rischio di danneggiamento e/o furto.

La giurisprudenza è solita fare coincidere questo interesse non già con la titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale sulla cosa, ma anche con qualunque rapporto giuridico per effetto del quale chi è in relazione con la cosa subisce un pregiudizio patrimoniale dal suo danneggiamento e/o perimento (Cass. civ., sez. III, 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. civ., sez. III, 22 dicembre 2011, n. 28284 che ha affermato l'interesse del comodatario ad assicurarsi contro il rischio della perdita della cosa se questo evento è stato posto pattiziamente a suo carico; Cass. civ., sez. III, 3 ottobre 2007, n. 20751 che ha affermato l'interesse del locatario ad assicurare contro i danni la cosa locata se il rischio della perdita di questa è stata posta pattiziamente a suo carico).

In senso difforme Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2003, n. 16826, la quale ha affermato che l'interesse ad assicurare un bene contro il rischio di danno «non può sussistere che in favore del proprietario del bene, ovvero del titolare di altro diritto reale, ovvero ancora del titolare di altro rapporto obbligatorio, purché assistito da garanzia reale (come nel caso del creditore ipotecario), poiché solo questi soggetti hanno interesse alla copertura assicurativa per danni alla cosa».

Nel leasing questo interesse è stato talvolta riconosciuto all'utilizzatore di una imbarcazione oggetto di locazione finanziaria (Trib. Roma, 17 marzo 2003), ma è stato anche affermato che l'interesse di cui all'art. 1904 c.c. sussiste in capo al concedente, il quale – in quanto proprietario del bene – è soggetto il cui patrimonio è direttamente inciso dalla perdita del bene oggetto di leasing (Trib. Roma, 29 gennaio 2002).

Ebbene, se l'interesse ad assicurare un bene contro il rischio di danni non deve individuarsi solo in capo al proprietario o titolare di altro diritto reale sul medesimo bene e deve riconoscersi astrattamente anche a colui la cui relazione con la cosa abbia titolo in un rapporto giuridico di natura obbligatoria – quale a mero titolo esemplificativo il locatario – se le parti del contratto hanno pattuito di trasferire sul detto soggetto il rischio del perimento del bene, dovrà concludersi che – a maggior ragione questo interesse sarà sussistente se il rischio è trasferito per effetto di disposizione di legge.

Ed allora, venendo alla locazione finanziaria, non dovrebbe seriamente dubitarsi dell'interesse dell'utilizzatore ad assicurare contro i danni il bene concessogli in leasing adesso che il comma 136, l. n. 124/2017 ha stabilito che, per locazione finanziaria, si intenda «il contratto con il quale la banca o un intermediario finanziario si obbliga ad acquistare o a fare costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell'utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto».

Il trasferimento ex lege di tutti i rischi sull'utilizzatore del bene dovrebbe trasferire a costui l'interesse ad assicurare il medesimo bene contro il rischio di perimento o danneggiamento, con conseguente diritto del predetto, al verificarsi dell'evento, di chiedere direttamente la liquidazione dell'indennizzo, salva la eventuale appendice di vincolo in virtù della quale le parti del contratto di leasing abbiano attribuito al finanziatore della somma utilizzata per l'acquisto del bene assicurato il diritto di soddisfarsi sulla indennità dovuta dall'assicuratore (Cass. civ., sez. III, 29 aprile 2024, n. 11373).

Se è così, l'ordinanza in esame, dichiarando inammissibile il ricorso perché la società ricorrente, che era la mera utilizzatrice e non la proprietaria dell'imbarcazione, non aveva allegato gli «elementi atti a comprovare la stessa legittimazione ad agire» e cioè non aveva dimostrato di avere interesse ad assicurare il bene perché su di essa gravava il rischio del perimento, avrebbe dato continuità al proprio consolidato orientamento ribadendo un principio valido per tutti i contratti (quale quello oggetto della controversia) stipulati e risolti anteriormente alla entrata in vigore della riforma del 2017 (il furto, infatti, era avvenuto nel 2013), ma che non dovrebbe applicarsi ai contratti di locazione finanziaria perfezionatisi in epoca successiva.

La scelta del legislatore di trasferire all'utilizzatore tutti i rischi, incluso quello del perimento, dovrebbe infatti implicare che costui non solo ha un interesse, rilevante ai sensi dell'art. 1904 c.c., a proteggersi contro il rischio di eventi che possano attingere il bene causandone il danneggiamento o la distruzione, ma anche che è il medesimo utilizzatore, per il solo fatto di allegare questa relazione con la res,  ad essere legittimato ad agire giudizialmente per la liquidazione dell'indennizzo.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.