Le soluzioni giuridiche
La sentenza in commento pone dunque una prima questione di assoluto rilievo e cioè quella relativa alla corretta delimitazione del potere di rappresentanza dell'incapace nell'esercizio di diritti personalissimi, quale appunto quello all'autodeterminazione (infra 1).
Vi è poi una seconda questione (ed è questa che più ci riguarda in questa sede) e cioè se, in una vicenda complessa come quella descritta, sia possibile affermare una responsabilità della struttura sanitaria per non aver dato immediatamente seguito alle richieste formulate dall'AdS in forza di un provvedimento di nomina quantomeno ambiguo e, quindi, per aver ritardato, nel dubbio, una decisione alquanto delicata e dagli effetti irreversibili per il paziente (infra 2).
Ma procediamo con ordine.
I poteri dell'AdS secondo la l. n. 219/2017
Quanto alla prima questione, una risposta apparentemente chiara si può rinvenire nella legge n. 219/2017 che, recependo i più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, dispone a chiare lettere: «ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario o di revocare il consenso previamente prestato anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento», laddove per trattamento sanitario deve intendersi «la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici» (art. 1, comma 5).
L'applicazione di tale regola si complica, ovviamente, nell'ipotesi in cui il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà e, prima di cadere in tale condizione, non abbia specificamente indicato attraverso una Dichiarazione Anticipata di Trattamento (DAT) se e quali terapie intenda ricevere nel caso in cui dovesse ritrovarsi in stato di incapacità. Ed è proprio per tale ragione che il legislatore del 2017 ha meritoriamente ritenuto di disciplinare, tra le altre, anche l'ipotesi in cui stato nominato un amministratore di sostegno, prevedendo che, ove la nomina contempli altresì l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario (così come appunto disposto dal Giudice tutelare triestino nella vicenda che qui ci occupa), «il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall'amministratore di sostegno ovvero solo da quest'ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere» (art. 3 comma 4).
Nondimeno, dietro all'apparente chiarezza di tale ultima norma si annida un pericoloso equivoco, come appunto confermato proprio dal caso da cui origina la sentenza in commento in cui l'AdS ha preteso che la struttura sanitaria interrompesse hic et nunc il trattamento e ciò in forza della sua mera nomina con espressa menzione del potere di rifiutare le cure.
I presupposti per l'interruzione delle cure nella sentenza “Englaro” (Cass. n. 21748/2007)
Ed infatti, prima ancora dell'intervento legislativo del 2017, la giurisprudenza di legittimità aveva già avuto modo di chiarire che il provvedimento di nomina non trasferisce al rappresentante «un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza» ma lo sottopone ad un «duplice ordine di vincoli: agire nell'esclusivo interesse dell'incapace e, nella ricerca del best interest, decidere non "al posto" dell'incapace né "per" l'incapace, ma "con" l'incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche» (Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748).
In quel precedente, la Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla dolorosa vicenda di Eluana Englaro, la giovane donna che da ben quindici versava in coma vegetativo irreversibile a seguito di un gravissimo incidente stradale. Il caso fu al centro di un delicatissimo dibattito pubblico apertosi a seguito dell'istanza con cui il padre di Eluana, nella sua veste di rappresentante, chiese al Giudice tutelare presso il Tribunale di Milano l'emanazione di un ordine di interruzione dell'alimentazione artificiale mediante sondino nasogastrico.
Dopo il rigetto opposto dal Tribunale e dalla Corte di appello, la questione venne appunto sottoposta alla Cassazione che chiarì a quali condizioni ed entro quali limiti il rappresentante dell'incapace può legittimamente assumere, per conto e nell'interesse di quest'ultimo, una determinazione definitiva e irrimediabile come l'interruzione della nutrizione artificiale.
In particolare, la Cassazione rinviò la causa alla Corte di appello affinché quest'ultima si conformasse al seguente principio di diritto: «ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti:
- quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e
- sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa».
Ebbene, tornando al caso da cui origina la sentenza in commento, non vi è dubbio che il provvedimento di nomina dell'AdS – nella parte in cui riconosceva espressamente a quest'ultimo il potere di richiedere la sospensione delle cure in difetto di specifiche allegazioni circa le effettive condizioni del paziente nonché la sua pretesa volontà di rifiutare la nutrizione artificiale – non rispettasse le condizioni poste dalla sentenza Englaro, tanto da far dubitare lo stesso Giudice tutelare alla luce di quanto rappresentatogli a mezzo e-mail dal primario del reparto presso cui era degente il paziente.
D'altro canto, una volta acclarato che il provvedimento di nomina dell'AdS non era conforme al sopra richiamato principio espresso dalla Cassazione, occorre a questo punto indagare i motivi per cui il Tribunale di Trieste ha comunque ritenuto di condannare la struttura al risarcimento. E qui veniamo alla seconda questione di nostro interesse.
Nel dubbio, la struttura sanitaria avrebbe dovuto adire il Giudice tutelare con ricorso
Sul punto, occorre invero considerare come il Tribunale di Trieste abbia accertato un duplice inadempimento da parte della struttura.
Il primo consisterebbe nel fatto che i sanitari avrebbero inizialmente rigettato la richiesta di interruzione delle cure sull'erroneo presupposto che il paziente non fosse terminale. Tant'è che, nel corso della successiva udienza all'uopo convocata dal Giudice tutelare, il primario del reparto aveva dichiarato che «se il paziente avesse espresso la volontà di non avere alcun trattamento lo avremmo rispettato», così lasciando intendere che la vera causa ostativa all'interruzione riguardasse non tanto la condizione clinica del paziente quanto la legittimità della richiesta formulata dall'AdS in nome e per conto del paziente.
In ogni caso, la struttura sarebbe incorsa in un ulteriore inadempimento per aver adito informalmente il Giudice tutelare mediante e-mail e non con ricorso così come espressamente previsto dall'art. 3, comma 5, l. n. 219/2017 al fine di garantire il pieno contradditorio con l'AdS nella sua veste di rappresentante del paziente
Secondo il Tribunale triestino, quindi, i sanitari avrebbero dovuto accogliere l'espressa richiesta dell'AdS (e cioè del soggetto che per legge è titolato ad esprimere il rifiuto in nome e per conto del paziente), salvo adire il Giudice tutelare con ricorso, esponendo il proprio parere sulle condizioni cliniche del paziente nonché i propri dubbi circa l'effettivo potere dell'AdS di rifiutare le cure.
Pertanto, letta in questi termini, l'affermazione di una responsabilità in capo alla struttura può essere ritenuta corretta.
È pur vero che la sentenza, come visto, non risparmia alcune gravi critiche neppure alla figlia del paziente (poi nominata AdS) e, soprattutto, al Giudice tutelare per aver espressamente riconosciuto all'AdS il potere di rifiutare le cure in difetto di una specifica richiesta da parte della figlia ricorrente e, in ogni caso, senza verifica dei presupposti richiesti dalla sentenza Englaro.
In altri termini, la sentenza in commento parrebbe condividere – di fatto – i medesimi dubbi coltivati dalla struttura sanitaria circa gli effettivi poteri dell'AdS. D'altro canto, per poter andare esente da responsabilità la struttura avrebbe dovuto rappresentare tali dubbi sin da subito al Giudice tutelare mediante il deposito del ricorso previsto dall'art. 4, comma 5, l. n. 219/2017 (come a dire che solo la presentazione di un'istanza formale al Giudice tutelare - e non anche una mera e-mail - può integrare la prova liberatoria posta a carico della struttura dall'art. 1218 c.c.)