Paziente incapace e interruzione delle cure: è sufficiente la nomina dell’Amministratore di sostegno?

Giuseppe Chiriatti
07 Aprile 2025

Già solo da una prima lettura, risulta evidente come l'intera vicenda sia stata condizionata, a monte, dalla decisione del Giudice tutelare di conferire all'AdS pieni poteri (ivi compreso quello «di assumere tutte le decisioni in ordine alle terapie ed eventuale sospensione delle stesse così come previste dalla legge sul bio-testamento n. 219/17») in difetto di specifiche allegazioni circa le effettive condizioni del paziente e, soprattutto, circa la sua pretesa volontà di rifiutare la nutrizione artificiale (così come asseritamente condivisa con i figli prima dell'evento ischemico). È lo stesso giudice chiamato a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria degli eredi a muovere una netta critica all'originario provvedimento di nomina dell'AdS, affermando che le «carenze del ricorso e del decreto di nomina hanno viziato in radice la comunicazione con i sanitari, tanto da indurli a dubitare dell'estensione dei poteri dell'AdS».

Massima

L'Amministratore di sostegno cui sia stata conferita la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario può richiedere alla struttura sanitaria l'interruzione dell'alimentazione artificiale, tenendo conto della volontà del beneficiario in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere. Nondimeno, in caso di dubbio sull'effettiva portata dei poteri dell'Amministratore di sostegno, la struttura sanitaria deve tempestivamente adire il Giudice tutelare affinché quest'ultimo autorizzi la sospensione del trattamento.

Il caso

Gli attori agivano in giudizio per ottenere iure hereditatis il risarcimento del danno patito dal padre (di seguito Tizio) per essere stato sottoposto ad alimentazione artificiale per quattordici giorni presso la struttura sanitaria convenuta e ciò contrariamente alla volontà espressa per conto del paziente dall'Amministratore di sostegno (nella specie uno dei due attori). Di seguito i passaggi più rilevanti della vicenda.

Il 17 dicembre 2018 Tizio veniva ricoverato con urgenza in ospedale per afasia ed emiplegia destra da ictus ischemico. Allettato e in condizione di severa disfagia e afasia globale, Tizio veniva dunque sottoposto a idratazione e nutrizione artificiale tramite sondino naso-gastrico.

A distanza di tre settimane dal ricovero, la figlia del paziente chiedeva al Giudice tutelare di essere nominata Amministratrice di sostegno (di seguito AdS) al fine di «poter rappresentarlo e/o assisterlo nel compimento dei seguenti atti senza necessità di separata, ulteriore, autorizzazione:

  • compiere gli adempimenti per l'assistenza e le cure socio-assistenziali del beneficiario, comprese quelle di cui alla l. n. 219/2017;
  • poter compiere gli adempimenti – in nome e per conto dell'amministrato - relativi alle cure mediche, decisioni che ora si presentano urgenti.

 

Il 16 gennaio 2019 la ricorrente, senza neppure essere convocata in udienza, veniva nominata AdS in via provvisoria fino al 31 dicembre 2019 con l'espressa autorizzazione a «prestare il consenso informato in caso di necessità di cure mediche e interventi in rappresentanza esclusiva del soggetto amministrato, di assumere tutte le decisioni in ordine alle terapie ed eventuale sospensione delle stesse così come previste dalla legge sul bio-testamento n. 219/2017».

Nella medesima data della nomina l'AdS comunicava al reparto presso cui era degente Tizio la volontà di rinunciare alla PEG (Gastrostomia endoscopica percutanea) programmata per il giorno successivo e di rifiutare qualsivoglia tipo di accanimento terapeutico. Il primario del reparto, tuttavia, non dava seguito alla richiesta e prendeva immediatamente contatti con il Giudice tutelare, rappresentandogli a mezzo e-mail che «il paziente non è attualmente in condizioni che prevedano il decesso in tempi rapidi a meno di complicazioni».

Seguiva dunque la riposta sempre a mezzo e-mail del Giudice tutelare, che alla luce di quanto rappresentatogli dal primario esprimeva «parere assolutamente contrario alla immediata sospensione delle cure» (così contraddicendo, sia pur nell'informalità dello scambio e-mail, il precedente provvedimento di nomina dell'AdS).

A fronte della posizione assunta dal Giudice tutelare e del conseguente rifiuto della struttura sanitaria di sospendere l'alimentazione artificiale del paziente, l'AdS depositava quindi un nuovo ricorso, allegando per la prima volta che «l'amministrato prima dell'evento ischemico ha chiaramente espresso infinite volte l'assoluta contrarietà a terapie quali quelle a cui ora è sottoposto» e chiedendo al Giudice tutelare di «ordinare all'Azienda sanitaria l'immediato trasferimento presso [altra] struttura considerata idonea ad assistere il paziente dopo la sospensione delle terapie».

Successivamente al ricorso, il Giudice tutelare convocava le parti in udienza al fine di poter dirimere qualsivoglia dubbio sulla situazione clinica in cui versava il paziente e assumere le più opportune determinazioni. In particolare, per conto della struttura sanitaria presenziava il primario del reparto, il quale riferiva «che il paziente è afasico, non comprende, non parla, che la parte destra dell'emisfero celebrale è compromessa, che il paziente è gravemente disabile e che non si può formulare una prognosi della malattia»; al contempo, il sanitario dichiarava di «non essere contrario alle dimissioni» e che «se il paziente avesse espresso la volontà di non avere alcun trattamento lo avremmo rispettato».  

In data 28 gennaio 2019 il Giudice tutelare pronunciava dunque il seguente decreto: «rilevato che la ricostruzione della volontà del paziente, attraverso le dichiarazioni rese dai familiari; rilevato altresì che non vi sono impedimenti di carattere deontologico e clinico assistenziale alle auto dimissioni del paziente salvo l'obbligo di una dichiarazione liberatoria, valutato anche il parere favorevole all'auto dimissione da parte del responsabile del reparto, dichiara il proprio nulla osta all'auto dimissione del paziente».

Dopo due giorni, il paziente veniva così dimesso (previa sottoscrizione – da parte dell'AdS – della liberatoria in favore della struttura) e trasferito presso un hospice che si era reso disponibile ad assisterlo nella fase successiva alla sospensione dell'alimentazione.

Successivamente al decesso, i figli del paziente adivano infine il Tribunale di Trieste che condannava la struttura sanitaria a risarcire agli attori il danno patito dal padre per esser stato sottoposto illegittimamente ad alimentazione artificiale nel periodo intercorrente tra la prima comunicazione del 16 gennaio 2019 (quella con cui l'AdS aveva comunicato alla struttura convenuta la volontà di interrompere il trattamento) e il giorno delle auto-dimissioni avvenute in data 30 gennaio 2019. In particolare, il Tribunale triestino quantificava il risarcimento nella somma 25.000 euro in applicazione del quarto scaglione previsto dalla Tabella di Milano per la liquidazione del danno da mancato/carente consenso informato in ambito sanitario.

La questione

Già solo da una prima lettura, risulta evidente come l'intera vicenda sia stata condizionata, a monte, dalla decisione del Giudice tutelare di conferire all'AdS pieni poteri (ivi compreso quello «di assumere tutte le decisioni in ordine alle terapie ed eventuale sospensione delle stesse così come previste dalla legge sul bio-testamento nr. 219/17») in difetto di specifiche allegazioni circa le effettive condizioni del paziente e, soprattutto, circa la sua pretesa volontà di rifiutare la nutrizione artificiale (così come asseritamente condivisa con i figli prima dell'evento ischemico). È lo stesso giudice chiamato a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria degli eredi a muovere una netta critica all'originario provvedimento di nomina dell'AdS, affermando che le «carenze del ricorso e del decreto di nomina hanno viziato in radice la comunicazione con i sanitari, tanto da indurli a dubitare dell'estensione dei poteri dell'AdS».

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento pone dunque una prima questione di assoluto rilievo e cioè quella relativa alla corretta delimitazione del potere di rappresentanza dell'incapace nell'esercizio di diritti personalissimi, quale appunto quello all'autodeterminazione (infra 1).

Vi è poi una seconda questione (ed è questa che più ci riguarda in questa sede) e cioè se, in una vicenda complessa come quella descritta, sia possibile affermare una responsabilità della struttura sanitaria per non aver dato immediatamente seguito alle richieste formulate dall'AdS in forza di un provvedimento di nomina quantomeno ambiguo e, quindi, per aver ritardato, nel dubbio, una decisione alquanto delicata e dagli effetti irreversibili per il paziente (infra 2).

Ma procediamo con ordine.

I poteri dell'AdS secondo la l. n. 219/2017

Quanto alla prima questione, una risposta apparentemente chiara si può rinvenire nella legge n. 219/2017 che, recependo i più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, dispone a chiare lettere: «ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario o di revocare il consenso previamente prestato anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento», laddove per trattamento sanitario deve intendersi «la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici» (art. 1, comma 5).

L'applicazione di tale regola si complica, ovviamente, nell'ipotesi in cui il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà e, prima di cadere in tale condizione, non abbia specificamente indicato attraverso una Dichiarazione Anticipata di Trattamento (DAT) se e quali terapie intenda ricevere nel caso in cui dovesse ritrovarsi in stato di incapacità. Ed è proprio per tale ragione che il legislatore del 2017 ha meritoriamente ritenuto di disciplinare, tra le altre, anche l'ipotesi in cui stato nominato un amministratore di sostegno, prevedendo che, ove la nomina contempli altresì l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario (così come appunto disposto dal Giudice tutelare triestino nella vicenda che qui ci occupa), «il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall'amministratore di sostegno ovvero solo da quest'ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere» (art. 3 comma 4).

Nondimeno, dietro all'apparente chiarezza di tale ultima norma si annida un pericoloso equivoco, come appunto confermato proprio dal caso da cui origina la sentenza in commento in cui l'AdS ha preteso che la struttura sanitaria interrompesse hic et nunc il trattamento e ciò in forza della sua mera nomina con espressa menzione del potere di rifiutare le cure.

I presupposti per l'interruzione delle cure nella sentenza “Englaro” (Cass. n. 21748/2007)

Ed infatti, prima ancora dell'intervento legislativo del 2017, la giurisprudenza di legittimità aveva già avuto modo di chiarire che il provvedimento di nomina non trasferisce al rappresentante «un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza» ma lo sottopone ad un «duplice ordine di vincoli: agire nell'esclusivo interesse dell'incapace e, nella ricerca del best interest, decidere non "al posto" dell'incapace né "per" l'incapace, ma "con" l'incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche» (Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748).

In quel precedente, la Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla dolorosa vicenda di Eluana Englaro, la giovane donna che da ben quindici versava in coma vegetativo irreversibile a seguito di un gravissimo incidente stradale. Il caso fu al centro di un delicatissimo dibattito pubblico apertosi a seguito dell'istanza con cui il padre di Eluana, nella sua veste di rappresentante, chiese al Giudice tutelare presso il Tribunale di Milano l'emanazione di un ordine di interruzione dell'alimentazione artificiale mediante sondino nasogastrico.

Dopo il rigetto opposto dal Tribunale e dalla Corte di appello, la questione venne appunto sottoposta alla Cassazione che chiarì a quali condizioni ed entro quali limiti il rappresentante dell'incapace può legittimamente assumere, per conto e nell'interesse di quest'ultimo, una determinazione definitiva e irrimediabile come l'interruzione della nutrizione artificiale.

In particolare, la Cassazione rinviò la causa alla Corte di appello affinché quest'ultima si conformasse al seguente principio di diritto: «ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti:

  • quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e
  • sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa».

 

Ebbene, tornando al caso da cui origina la sentenza in commento, non vi è dubbio che il provvedimento di nomina dell'AdS – nella parte in cui riconosceva espressamente a quest'ultimo il potere di richiedere la sospensione delle cure in difetto di specifiche allegazioni circa le effettive condizioni del paziente nonché la sua pretesa volontà di rifiutare la nutrizione artificiale – non rispettasse le condizioni poste dalla sentenza Englaro, tanto da far dubitare lo stesso Giudice tutelare alla luce di quanto rappresentatogli a mezzo e-mail dal primario del reparto presso cui era degente il paziente.

D'altro canto, una volta acclarato che il provvedimento di nomina dell'AdS non era conforme al sopra richiamato principio espresso dalla Cassazione, occorre a questo punto indagare i motivi per cui il Tribunale di Trieste ha comunque ritenuto di condannare la struttura al risarcimento. E qui veniamo alla seconda questione di nostro interesse.

Nel dubbio, la struttura sanitaria avrebbe dovuto adire il Giudice tutelare con ricorso

Sul punto, occorre invero considerare come il Tribunale di Trieste abbia accertato un duplice inadempimento da parte della struttura.

Il primo consisterebbe nel fatto che i sanitari avrebbero inizialmente rigettato la richiesta di interruzione delle cure sull'erroneo presupposto che il paziente non fosse terminale. Tant'è che, nel corso della successiva udienza all'uopo convocata dal Giudice tutelare, il primario del reparto aveva dichiarato che «se il paziente avesse espresso la volontà di non avere alcun trattamento lo avremmo rispettato», così lasciando intendere che la vera causa ostativa all'interruzione riguardasse non tanto la condizione clinica del paziente quanto la legittimità della richiesta formulata dall'AdS in nome e per conto del paziente.

In ogni caso, la struttura sarebbe incorsa in un ulteriore inadempimento per aver adito informalmente il Giudice tutelare mediante e-mail e non con ricorso così come espressamente previsto dall'art. 3, comma 5, l. n. 219/2017 al fine di garantire il pieno contradditorio con l'AdS nella sua veste di rappresentante del paziente

Secondo il Tribunale triestino, quindi, i sanitari avrebbero dovuto accogliere l'espressa richiesta dell'AdS (e cioè del soggetto che per legge è titolato ad esprimere il rifiuto in nome e per conto del paziente), salvo adire il Giudice tutelare con ricorso, esponendo il proprio parere sulle condizioni cliniche del paziente nonché i propri dubbi circa l'effettivo potere dell'AdS di rifiutare le cure.

Pertanto, letta in questi termini, l'affermazione di una responsabilità in capo alla struttura può essere ritenuta corretta.

È pur vero che la sentenza, come visto, non risparmia alcune gravi critiche neppure alla figlia del paziente (poi nominata AdS) e, soprattutto, al Giudice tutelare per aver espressamente riconosciuto all'AdS il potere di rifiutare le cure in difetto di una specifica richiesta da parte della figlia ricorrente e, in ogni caso, senza verifica dei presupposti richiesti dalla sentenza Englaro.

In altri termini, la sentenza in commento parrebbe condividere – di fatto – i medesimi dubbi coltivati dalla struttura sanitaria circa gli effettivi poteri dell'AdS. D'altro canto, per poter andare esente da responsabilità la struttura avrebbe dovuto rappresentare tali dubbi sin da subito al Giudice tutelare mediante il deposito del ricorso previsto dall'art. 4, comma 5, l. n. 219/2017 (come a dire che solo la presentazione di un'istanza formale al Giudice tutelare - e non anche una mera e-mail - può integrare la prova liberatoria posta a carico della struttura dall'art. 1218 c.c.)

Osservazioni

In definitiva, volendo sintetizzare la decisione del Giudice triestino, potremmo concludere che la struttura è stata ritenuta responsabile non tanto per aver ritardato l'interruzione del trattamento, quanto per non aver immediatamente attivato il rimedio (il ricorso al Giudice tutelare) che la legge le attribuisce per dirimere qualsivoglia dubbio circa le volontà espresse dal paziente per il tramite dell'AdS.

La sentenza in commento offre dunque delle indicazioni piuttosto significative alle strutture e al personale sanitario su come gestire vicende complesse come quella in questione, in cui l'irreversibilità della scelta (l'interruzione della nutrizione artificiale) non può ammettere dubbi di sorta.

Sullo sfondo, tuttavia, resta un'ulteriore questione che meriterebbe di essere attentamente indagata. Ci riferiamo al fatto che l'impasse venutasi a creare a seguito della nomina dell'AdS è stata comunque superata in tempi ragionevolmente brevi (dodici giorni tra la nomina dell'AdS e il decreto con cui il Giudice tutelare ha autorizzato le auto-dimissioni): in altri termini, ci si potrebbe chiedere se il temporaneo rifiuto della struttura di interrompere le cure superi quella soglia minima di offensività, al di sotto della quale non può darsi accesso alla tutela risarcitoria così come statuito dalle Sezioni Unite nelle sentenze di San Martino (Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972).

Ovviamente, non si vuol qui derubricare la sofferenza patita dal paziente, specie a fronte delle convinzioni da lui espresse ai familiari prima di ritrovarsi in stato di incapacità; d'altro canto, ci pare quantomeno ragionevole dubitare che un “ritardo” di dodici giorni (nell'attesa che il Giudice tutelare si esprimesse definitivamente nell'interesse stesso del paziente su di una scelta delicatissima e dagli effetti irreversibili) possa aver determinato un danno risarcibile e tantomeno nella misura più elevata secondo gli scaglioni previsti dalla Tabella di Milano per la liquidazione del danno da mancato/carente consenso informato in ambito sanitario.

Oltretutto, l'impiego stesso della Tabella di Milano in un caso come quello in questione si presta ad alcune possibili critiche, tenuto conto che quei criteri sono stati elaborati per liquidare il danno da lesione del diritto all'autodeterminazione in una fattispecie differente, e cioè quella in cui il paziente sia stato sottoposto ad un trattamento sanitario in difetto di un'adeguata di informazione preventiva.

Ad ogni modo, pur al netto della criticità appena segnalate, il merito della sentenza in commento risiede proprio nell'aver indagato i profili risarcitori con riguardo ad una fattispecie del tutto peculiare, i cui risvolti etici prima ancora che giuridici impongono un approccio consapevole e prudente nell'interesse primario del paziente incapace.

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