La compravendita di un bene a prezzo vile e il reato di bancarotta impropria per aggravamento del dissesto a seguito di operazioni dolose
21 Novembre 2024
Massima In tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui agli art. 223, comma 2, n. 2, l. fall. e 329, comma 2, lett. b) c.c.i.i. attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato. Il caso La vicenda giudiziaria sottoposta all'attenzione della suprema Corte origina dal ricorso presentato dagli imputati avverso una sentenza della Corte d'Appello di Napoli che aveva confermato la loro condanna per concorso nel reato di bancarotta impropria per aggravamento del dissesto a seguito di operazioni dolose in ragione di un'operazione di vendita da parte della società, poi fallita, di un bene immobile ad un prezzo inferiore al suo effettivo valore. Le censure mosse alla pronuncia si sostanziavano, per ciò che qui maggiormente interessa, nell'evidenziare la manifesta illogicità del provvedimento in ragione del difetto di un obiettivo accertamento del valore di mercato del bene, dell'omessa valutazione o comunque sottovalutazione del fatto che una parte dei debiti della fallita fosse stata ripianata dalla società acquirente nonché del fatto che il prezzo della vendita fosse stato effettivamente pagato, sicché il danno cagionato all'alienante sarebbe derivato dalle sole successive condotte distrattive, addebitabili a coimputati non ricorrenti, aventi ad oggetto detto prezzo. Le argomentazioni dei ricorrenti così in sintesi riassunte erano ritenute fondate dalla Corte di Cassazione, la quale annullava con rinvio la sentenza impugnata. La questione Il tema in causa concerne dunque la possibilità di ritenere che le operazioni dolose atte a cagionare il dissesto della società, nelle quali si sostanzia la tipicità obiettiva del reato di bancarotta impropria disciplinato dall'art. 223, comma 2, n. 2), l. fall. ed ora dall'art. 329, comma 2, lett. b), c.c.i.i., possano essere costituite anche da una operazione di vendita di un immobile ad un prezzo incongruo, come invero sostenuto nel caso al vaglio dai giudici di merito con motivazione tuttavia censurata dalla suprema Corte. Le soluzioni giuridiche Nella sentenza qui annotata la Cassazione evidenzia come l'assunto secondo cui la cessione di un bene ad un prezzo incongruo costituisce operazione dolosa, o suo segmento, atta a cagionare il dissesto della società, possa trovare fondamento soltanto a fronte di valutazioni interpretative che, a mente degli elementi costitutivi del reato di cui agli artt. 223, comma 2, n. 2) l. fall. e 329, comma 2, lett. b), c.c.i.i. ed anche in rapporto al diverso delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, tengano conto di ogni aspetto delle vicende sottese e comunque collegate al negozio di compravendita. Nel caso di specie tali complessive valutazioni appaiono carenti, con la conseguenza che la motivazione del provvedimento impugnato risulta non aliena da alcune illogicità e contraddizioni, le quali possono sintetizzarsi come segue. In primo luogo, nel corso dei giudizi di merito non era stato acquisito alcun parere tecnico indipendente circa il valore dell'immobile alienato ed il fatto che il prezzo della cessione pari ad € 1.300.000 fosse da ritenersi vile si traeva dalla circostanza che l'acquirente, il mese successivo, aveva a sua volta rivenduto il bene ad una società di leasing al prezzo questa volta di € 8.000.000. La circostanza non appare del tutto esaustiva in quanto, nel corso di un contenzioso fiscale con la società fallita, l'Agenzia delle Entrate aveva attribuito all'immobile un valore di circa € 3.200.000 (poi ulteriormente diminuito, a seguito di un accertamento con adesione, ad € 2.717.000) ed in più la quantificazione del citato prezzo di € 8.000.000 trovava fondamento anche nel fatto che la società di leasing aveva poi concesso il bene in locazione finanziaria ad altra società sempre riconducibile agli indagati, sicché la vendita contestata quale operazione dolosa si inseriva in una operazione più complessa destinata a finanziare un progetto di riconversione e sfruttamento dell'immobile sviluppato dalla locataria ed al quale la società fallita era estranea. Inoltre, ancorché l'accollo dei debiti della società fallita da parte della società (per prima) acquirente non fosse esplicitamente previsto nel contratto di compravendita, risultava come la seconda avesse in effetti pagato alcuni debiti della prima, per cui la valutazione dei giudici di merito secondo cui tale accordo a latere della vendita avrebbe avuto carattere neutro ai fini della configurabilità del reato risulta illogica ed anche contraddittoria, poiché l'effettività dell'estinzione dei debiti menzionati sembrava essere stata ammessa negli stessi gradi di merito. La Corte prosegue poi nel richiamare il proprio consolidato orientamento in tema di “operazioni dolose”, le quali richiamano necessariamente un “quid pluris” rispetto ad ogni singola azione, postulando una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo, come invece accade per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale quale è dato riscontrare in qualsiasi iniziativa societaria che implichi un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato (Cass., 18 febbraio 2010, n. 17690, e Cass., 25 settembre 2014, n. 47621, dalla cui massima ufficiale è tratta quella riportata in apertura della presente nota). Il fatto per essere tipico deve poi cagionare il dissesto della società o quantomeno aggravarlo se già in atto al momento della realizzazione della condotta ed ancora tale aggravamento deve essere considerato globalmente e non già con riferimento a singole situazioni debitorie (Cass. 28 marzo 2003, n. 19806). Alla luce di tutti i principi esposti la Corte conclude, non prima di avere osservato che i giudici di merito avrebbero dovuto anche valutare l'eventualità di riqualificare il fatto nel diverso reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale in ragione dei connotati distrattivi o dissipativi della condotta contestata, osservando come alla mancata considerazione delle azioni poste in essere contestualmente alla compravendita al fine di ridurre in altro modo il passivo della società, anche a mente, si è detto, del non chiaro valore di mercato del bene ceduto, consegua il dubbio che sia configurabile il necessario nesso condizionalistico tra l'operazione ed il dissesto e che quest'ultimo fosse prevedibile da parte degli imputati. Osservazioni Il reato di bancarotta impropria per avere cagionato tramite operazioni dolose il dissesto della società appare a forma libera di evento, non essendo tipizzate le modalità della condotta, riassunta per l'appunto nell'espressione, invero scarna, di “operazioni dolose”; queste ultime sono senz'altro legate causalmente al dissesto, il quale costituisce evento di danno del reato. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il reato è configurabile anche qualora la condotta del soggetto attivo abbia (non soltanto cagionato ma anche) aggravato, globalmente e non già con riferimento a singole situazioni debitorie, una situazione di dissesto già esistente. Quanto all'elemento soggettivo del reato, non è richiesto il dolo specifico diretto alla causazione del fallimento, ma è sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa (Cass., 8 febbraio 2024, n. 16111). Le conclusioni cui è giunta la suprema Corte nella sentenza qui annotata si pongono in continuità con tali principi, ma la specificità del tema in causa, ovvero la prospettata equiparazione tra compravendita di un bene ad un prezzo incongruo ed operazione dolosa, rende la pronuncia di significativo interesse. La descrizione della condotta tipica del reato in oggetto, come detto, tramite i soli termini di “operazioni dolose”, presuppone che se ne dia loro contenuto. Premesso che “dolosa” non significa necessariamente “delittuosa”, ancorché ciò non sia escluso, appare utile ricordare, senza pretesa di esaustività, alcune ipotesi paradigmatiche in cui il reato è ritenuto configurabile:
I principi giurisprudenziali ricordati nella pronuncia in commento e quelli che si traggono dalla casistica appena menzionata consentono allora di dubitare fondatamente che l'alienazione a prezzo vile di un bene possa costituire azione dolosa atta a cagionare od aggravare il dissesto della società. Non v'è dubbio, infatti, come simili condotte possano certo determinare un depauperamento ingiustificato per l'alienante, ma già si è ricordato come tale depauperamento, ove si apprezzi eziologicamente in termini di cagionamento o aggravamento del dissesto, debba essere valutato globalmente e non già con riferimento a singole situazioni debitorie. La valutazione del fatto che si assume delittuoso non può prescindere quindi da una sua complessiva analisi, comprensiva anche delle circostanze fattuali ad esso collegate, e questa valutazione è risultata carente nel caso al vaglio in quanto i giudici di merito avevano immotivatamente emarginato la circostanza del pagamento da parte della società acquirente di alcuni debiti dell'alienante, omettendo quindi di valutare la ricaduta dell'operazione posta in essere sul patrimonio della fallita inteso nella sua globalità. Sul punto devesi ricordare come la giurisprudenza di legittimità sia consolidata nel ritenere che, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale quale reato di pericolo concreto, il pregiudizio ai creditori deve sussistere non già al momento della condotta bensì al momento della dichiarazione giudiziale di fallimento o di liquidazione giudiziale (od ancora, nella bancarotta c.d. “concordataria”, del decreto di ammissione al concordato preventivo). Il reintegro del patrimonio dell'impresa avvenuto anteriormente a tali momenti consente infatti di evitare che il pericolo per la garanzia dei creditori assuma effettiva concretezza, eccettuando il disvalore del fatto ed in ciò sostanziandosi la c.d. “bancarotta riparata”. Tale principio, mutatis mutandis, appare sotteso anche a quanto appena osservato in tema di aggravamento del dissesto, il quale non può essere apprezzato in modo parcellizzato senza tener conto di ogni effetto sul patrimonio della società collegato, direttamente o indirettamente, alle condotta che si assume delittuosa, come avvenuto nel caso di specie in cui la cessione dell'immobile era accompagnata dal pagamento da parte dell'acquirente di alcuni debiti dell'alienante. D'altra parte, sempre richiamando l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, l'elemento obiettivo del reato disciplinato dagli artt. 223, comma 2, n. 2), l. fall. e 329, comma 2, lett. b), c.c.i.i. postula non tanto che le operazioni dolose dalle quali derivi il dissesto generino una diminuzione dell'attivo stricto sensu, quasi in senso algebrico, bensì un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa, sì che a quel dissesto non possa che seguire il fallimento o la liquidazione giudiziale. Il termine “operazioni” richiama poi un “quid pluris” rispetto ad ogni singola azione, postulando una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente da un fatto di maggiore complessità strutturale rispetto alle condotte delittuose tipizzate dagli artt. 216, comma 1, n. 1), l. fall. e 322, comma 1, lett. a), c.c.i.i. La compravendita di un bene a prezzo vile difficilmente allora potrà interpretarsi quale “operazione”, difettando quel quid pluris tale da distinguerla da un “semplice” fatto di bancarotta fraudolenta tant'è che, in modo del tutto condivisibile, la Cassazione non dimentica di osservare che i giudici di merito avrebbero dovuto valutare anche l'eventualità di riqualificare il fatto nel diverso reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale in ragione, per l'appunto, dei (soli) connotati distrattivi o dissipativi della contestata alienazione. Tali ultime conclusioni, in realtà, non possono prescindere dall'analisi dell'oggetto della compravendita e dunque dalla natura del bene venduto, ed invero appaiono corrette soltanto qualora la cessione determini un pregiudizio per l'alienante commisurato soltanto a quanto concretamente sottratto alla garanzia patrimoniale dei creditori. Nell'ipotesi in cui, invece, la cessione abbia ad oggetto un'azienda, suoi rami o beni capaci di generare di fatto una identificazione tra gli stessi e l'attività d'impresa e nei quali quest'ultima si identifichi, quali, a titolo di esempio, marchi di carattere forte, si comprende come appaia arduo qualificare il danno cagionato all'alienante in termini meramente quantitativi e, diremmo, statici, poiché trattasi di condotte che, pur potendo trovare equivalente nel corrispettivo della vendita, ben possono giungere a privare l'alienante della possibilità di svolgere validamente l'attività d'impresa e di continuare a far fronte alle proprie obbligazioni. In simili casi, pur assumendo anche particolare significato la verifica della destinazione e delle modalità di impiego del prezzo della vendita e quindi per soddisfare quali finalità sia stato utilizzato, si apprezza come, soprattutto qualora l'azienda sia l'unico o comunque il principale bene della società dante causa o il marchio sia così forte da indentificarvisi, alla cessione potrebbe seguire il venir meno degli strumenti per proseguire detta attività sì da cogliere l'estraneità dell'operazione alle finalità imprenditoriali della cedente (per una ipotesi analoga, cfr. Cass. 20 maggio 2014, n. 40998, in cui è stata qualificata come operazione dolosa la vendita a prezzo di mercato di un bene immobile costituente l'unico ramo d'azienda di una società e che, pur se seguita dall'effettivo conseguimento del corrispettivo, aveva tuttavia privato l'impresa della possibilità di svolgere l'attività per cui era stata costituita). Ed è qui che la condotta, pur tradottasi nella (sola) cessione di un bene, può tornare a configurare il reato di bancarotta impropria per aggravamento del dissesto tramite operazioni dolose. Tale fattispecie delittuosa infatti si caratterizza, si è detto, per un pregiudizio alla società determinato non tanto dalla sottrazione di utilità alla garanzia patrimoniale, come accade invece per quello di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ma da condotte tali da minare, soprattutto in prospettiva, le possibilità per l'impresa di continuare ad operare, sacrificando, sempre e soprattutto secondo una visione prospettica, gli interessi sociali in favore di altri. Una tipica forma di tali sacrifici si riscontra com'è noto nelle ipotesi, tutt'altro che rare e riconducibili a quelle sub 2) della casistica sopra menzionata, della continuazione dell'attività imprenditoriale “trasferendone” le sole attività, di fatto o tramite negozi nella sostanza privi di sinallagma, a diverso soggetto giuridico, col vantaggio di beneficiare quest'ultimo al netto delle passività in precedenza accumulate dal cedente che, con ogni probabilità, lo condurranno al dissesto. |