La procedura di correzione di errore materiale

Vincenzo Blanda
30 Marzo 2023

Il procedimento di correzione di errore materiale delle pronunce giudiziali costituisce un metodo semplice, rapido ed efficace con il quale sono rettificate omissioni o errori meramente materiali, che non incidono sul contenuto dispositivo del provvedimento giurisdizionale. Ciò premesso, lo scritto mira ad approfondire le caratteristiche e gli ambiti di applicazione dell'istituto, soffermandosi sulla natura del procedimento di correzione - qualificato dalla prevalente giurisprudenza - come procedimento a carattere amministrativo e sul recente arresto dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato decreto n. 1/2023 che ha affermato la possibilità di attivare la correzione di un errore materiale anche d'ufficio, trattandosi di un procedimento privo di connotati giurisdizionali e di natura amministrativa.
Natura ed ambito d'applicazione

Il procedimento è funzionale alla sola eliminazione degli errori di redazione del documento cartaceo qualora emerga palesemente l'incongruenza della materiale esteriorizzazione del pensiero rispetto al concetto ad esso sotteso, concretandosi, quindi, in un mero difetto di corrispondenza tra l'ideazione e la sua materiale rappresentazione grafica: come tale esso non può mai incidere sul contenuto concettuale della sentenza. Pertanto, l'ordinanza che conclude il relativo procedimento non è soggetta ad impugnazione (neppure con il ricorso straordinario ex art. 111 Cost.), stante la sua natura non giurisdizionale, ma meramente amministrativa (in questo senso si veda Cons. Stato, sez. IV, 22 aprile 2004, n. 2358 (in Foro it., Rep. 2004, Giustizia amministrativa, n. 1198; in Foro amm.-Cons. Stato 2004, 1083).

L'istituto è disciplinato dagli artt. 287 e 288 c.p.c. e, per quanto riguarda in particolare il processo amministrativo dall'art. 86 del relativo codice, approvato con il d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (anche c.p.a.).

Si ritiene comunemente che la correzione di errore materiale consenta di emendare i provvedimenti del giudice da vizi che non si risolvano in errori di giudizio o delle argomentazioni sottostanti alla decisione, alla cui eliminazione è preordinato il sistema delle impugnazioni. Essa, quindi, suppone l'esistenza di omissioni o errori meramente materiali, che non incidono sul contenuto dispositivo del provvedimento giurisdizionale.

Scopo del procedimento è quello di adeguare le statuizioni della sentenza alla volontà dello stesso giudice che l'ha emanata: in altri termini mira alla ricostruzione della effettiva volontà del giudice e, quindi, ad adeguare ad essa lo scritto quale mezzo di esternazione del pensiero. Osserva in proposito autorevole dottrina (S. SATTA, Diritto processuale civile, IX edizione a cura di C. PUNZI, Padova, Cedam, 1981, pag. 377) che in caso di errore materiale, non occorre “rifare” il giudizio, ma eliminare una fortuita divergenza fra l'idea e la sua errata rappresentazione.

Le definizioni di errore materiale fornite dalla giurisprudenza sono molteplici e dipendono dagli aspetti peculiari dell'errore di cui le varie pronunce si sono, di volta in volta, occupate.

Esistono – come si avrà modo di esaminare nel prosieguo - una vasta gamma di errori, quali, a titolo di esempio, errori di calcolo, l'omessa indicazione di una delle parti del giudizio, l'erronea indicazione dei dati anagrafici delle parti in causa o ancora l'erronea trascrizione delle conclusioni formulate dalle stesse in occasione dell'ultima udienza.

I presupposti del procedimento di correzione

Il procedimento di correzione dei provvedimenti del giudice è volto ad eliminare un errore accidentale rilevabile dal contesto dell'atto giurisdizionale e riconducibile alle tre categorie dell'omissione, dell'errore materiale e dell'errore di calcolo, che sebbene non espressamente previsto dall'art. 86 c.p.a. è annoverato nel campo d'applicazione dell'istituto, come si evince dall'art. 287 c.p.c.

Presupposto del procedimento di correzione di errore materiale è, dunque, che l'errore sia immediatamente rilevabile dal contesto dell'atto, vale a dire che esso sia percepibile ictu oculi ed emendabile utilizzando i criteri che emergono dal contesto dell'atto, senza possibilità di alterazione del contenuto precettivo della decisione né di modificare il suo iter logico (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20 dicembre 2005, n. 7200, in Foro amministrativo-Consiglio di Stato, 2005, 7200).

Insomma per procedere alla correzione non deve essere necessaria alcuna indagine ricostruttiva del pensiero del giudice, il cui contenuto deve rimanere individuato senza incertezza. In altri termini occorre che l'errore incida negativamente (rendendolo incomprensibile o fuorviante) sull'iter logico giuridico che ha condotto alla decisione.

Si deve trattare di una inesattezza accidentale, o comunque occasionale, che per sua natura sia inidonea a modificare il contenuto essenziale, espositivo, enunciativo e prescrittivo delle pronunce e consista solo in una fortuita divergenza tra l'idea e la sua rappresentazione, chiaramente riconoscibile da chiunque e rilevabile dal contesto del provvedimento o dal semplice raffronto tra la motivazione ed il dispositivo, per la non corrispondenza formale e sostanziale tra l'uno e l'altro.

L'errore che consente la correzione non investe la decisione (quale contenuto dell'atto), ma l'esternazione della volontà, la esternazione del convincimento del giudice nel documento; esso in altri termini, riguarda solo la formula esterna ovvero l'espressione letterale del giudizio.

Trattandosi della divergenza tra l'idea e la sua rappresentazione, ovvero di un difetto nella documentazione del giudizio, l'errore materiale non riguarda il vizio della volontà del giudice, l'errore di giudizio e l'errore nella formazione del giudizio.

Sulla base di tali presupposti la giurisprudenza esclude l'ammissibilità del rimedio per sanare errori di parte, tenuto conto di quanto previsto dall'art. 287 c.p.c., che prevede la possibilità di procedere soltanto alla correzione di errori materiali commessi dal giudice.

Rapporto tra nullità e vizio emendabile

Sulla base di quanto poco sopra considerato è utile osservare che nella prassi applicativa è emersa la questione sulla differenza tra gli errori che possono venire eliminati mediante il procedimento di correzione e quelli che, invece, invalidano la decisione al punto da determinarne la nullità.

Infatti, una delle questioni sottese al procedimento di correzione, riguarda la differenza intercorrente tra gli errori emendabili ex art. 287 c.p.c. e art. 86 c.p.a. e quelli che, al contrario, devono formare oggetto di apposito mezzo di impugnazione, anche, di natura incidentale.

In proposito, occorre chiarire che il procedimento di correzione è inteso come procedimento di carattere amministrativo, tant'è che la natura giurisdizionale della procedura di correzione è stata esclusa dalla Corte di cassazione in un risalente arresto, nel quale è stata ribadita la natura amministrativa di tale procedimento (cfr. Cass., sez. II, 3 maggio 1996, n. 4096, in Giust. civ. mass. 1996, 662).

La nullità della sentenza fa riferimento ai vizi da cui sono affetti gli atti processuali carenti dei requisiti ritenuti indispensabili e obbligatori perché l'atto sia valido ed efficace.

L'errore materiale, come anticipato, consiste nella mancata corrispondenza tra l'ideazione (o convincimento) del giudice e la sua rappresentazione grafica.

L'istanza di correzione, quindi, è inammissibile per rimediare ad errori che determinano la nullità del provvedimento giurisdizionale o per ovviare alla possibilità di proporre una impugnazione averso tale atto: il che accade, in particolare, nelle ipotesi in cui l'errore denunciato consista nell'omissione di pronuncia su un capo di domanda, in violazione dell'art. 112 c.p.c. che richiede una modifica della statuizione, o si è concretizzato nella inesatta indicazione dei presupposti di fatto assunti a fondamento della decisione, ovvero quando attenga alla ratio decidendi del provvedimento, comportando valutazioni discrezionali da parte del giudice.

La parte che intende far valere in giudizio la nullità di un atto processuale deve quindi provvedervi attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione, stante l'assorbimento della nullità negli ordinari mezzi di gravame; al contrario, ove si intenda ottenere la correzione dell'errore materiale, occorrerà instaurare la specifica procedura prevista dal codice oppure occorrerà formulare apposita istanza direttamente nell'atto d'impugnazione con il quale si faranno valere anche altri profili di gravame attinenti al merito.

Al riguardo occorre precisare che, secondo giurisprudenza consolidata, l'impugnazione di provvedimenti giurisdizionali può essere svolta anche per correggere errori materiali e il giudice di appello, ove tempestivamente e ritualmente adito, può provvedere all'incombente anche d'ufficio. Sui limiti con i quali è ammissibile la procedura correzione si rinvia alle osservazioni di cui ai successivi paragrafi.

La casistica

Le principali ipotesi di correzione, oltre alla rettifica dei refusi di scrittura, riguardano:

- le erronee indicazioni contenute nell'intestazione della sentenza, quali la mancanza o l'errore nominativo di un componente del collegio, ancorché a tal fine si debba fare ricorso al verbale d'udienza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 3 maggio 2000, n. 2622, in Foro amm.-Cons. Stato, 2000, 1665);

- la mancata individuazione di una parte o inesatta trascrizione dei suoi dati anagrafici, allorché emerga con certezza la sua identità e l'inclusione tra i destinatari della decisione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16 ottobre 1995 n. 815, in Foro amm., 1995, 2163);

- la omessa menzione di una determinata qualificazione del soggetto processuale nei cui confronti sia pronunciata la decisione, sempre che non emergano incertezze sulla titolarità del rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio;

- l'omessa o erronea indicazione del difensore purché esista un concreto profilo di interesse alla correzione e l'inesattezza non riveli violazioni del contraddittorio (Cons. Stato, sez. IV, 13 novembre 1992, n. 948, in Foro amm., 1992, 2501);

- l'erronea trascrizione delle conclusioni delle parti, purché risulti che le conclusioni effettivamente rassegnate sono state prese in esame dal giudice;

- la incongrua indicazione del luogo in cui è stata deliberata la sentenza che non comporti incertezza sul punto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 1988, n. 826, in Cons. Stato, 1988, I, 1191) e la discordanza tra la data di deliberazione e quella dell'udienza, che non determina nullità quando sia certo che la causa è stata decisa successivamente all'udienza di discussione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 31 gennaio 1995 n. 44, in Cons. Stato, 1995, I, 159);

- la sottoscrizione della sentenza da parte di un giudice estraneo al collegio giudicante, in luogo di altro magistrato che ne faceva parte, purché risulti certa l'adozione della decisione da parte dei giudici che componevano il collegio e si sia trattato un involontario scambio di firme (cfr. Cass., 29 aprile 1993, n. 5077);

- la liquidazione delle spese di lite, solo quando la pronuncia sulle spese abbia un contenuto vincolato e non vi sia margine per un apprezzamento discrezionale (sull'an e sul quantum della condanna nonché sulla clausola di compensazione), esaurendosi, pertanto, in un mero errore di calcolo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 17 dicembre 1998, n. 1809), o in un'inversione del nome del soccombente con quello del vincitore (cfr. Cass., sez. un., 27 giugno 2002, n. 9438) o la condanna sia stata posta a carico della parte non soccombente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 dicembre 2006, n. 8053);

- nel caso di refuso numerico, quando il dispositivo di una decisione nella parte relativa alla condanna alla refusione delle spese e degli onorari, presentava uno scostamento tra la cifra espressa in numeri e la dicitura in lettere (cfr. Cons. Stato, sez. V, decreto collegiale, 10 febbraio 2015, n. 670);

- nelle ipotesi in cui sia mancata la regolazione delle spese processuali e sia stata violata la tariffa professionale, trattandosi di attività discrezionale del giudice, non è possibile avvalersi del procedimento di correzione, per cui è necessario procedere mediante gli ordinari mezzi di impugnazione;

- la omessa pronuncia sull'istanza di distrazione delle spese in favore del difensore ex art. 93 c.p.c., atteso che tale omissione costituisce ordinariamente, il frutto di una mera svista o dimenticanza circa l'adozione di un provvedimento sul quale il giudice non può esercitare, di norma, alcun sindacato (Cons. Stato, sez. IV, decreto collegiale 5 marzo 2018, n. 1332; Cass., sez. un., 7 luglio 2010, n. 16037);

- la erronea duplicazione grafica della parte in fatto senza riproduzione della parte in diritto (cfr. TAR Abruzzo, ord. 22 giugno 2010, n. 45), o nell'omissione grafica della parte in fatto e in diritto, situazioni che possono spesso verificarsi con i sistemi informatici in uso al processo amministrativo;

- il contrasto tra motivazione e dispositivo, nell'ambito del rito ex art. 119 c.p.a., la procedura di correzione è ammessa purché il dispositivo statuisca, in termini inequivocabili, difformemente dal percorso argomentativo della parte motiva.

Per quanto concerne, in particolare, la mancata sottoscrizione della decisione, la giurisprudenza aderisce agli approdi della dottrina, ritenendo che la sottoscrizione del presidente e dell'estensore costituisca requisito essenziale della sentenza, la cui omissione senza indicazione delle ragioni di impedimento del magistrato determina la nullità assoluta e insanabile, equiparabile all'inesistenza, come tale rilevabile anche d'ufficio e deducibile dall'interessato ex art. 161, comma 2, c.p.c. al di fuori dai limiti e dalle regole dei mezzi di impugnazione, alla quale consegue l'annullamento con rinvio al primo giudice, trattandosi di un caso di difetto di forma (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28 settembre 2006, n. 5689, in Foro amm.-Cons. stato, 2006/2635).

In proposito non rileva la distinzione tra mancanza intenzionale ed involontaria, ossia provocata da errore o dimenticanza, né il vizio può essere eliminato con il procedimento di correzione degli errori materiali, il quale postula un provvedimento affetto nel contenuto da omissioni o errori, ma ormai completo nel suo procedimento di formazione, o attraverso la rinnovazione della pubblicazione da parte dello stesso organo, che ha ormai esaurito la sua funzione giurisdizionale con l'adozione della decisione (Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5762; in senso contrario, TAR Lazio, Roma, Sez. III, 2 novembre 2005, n. 10212, in Foro amm.-Tar, 2005, 3617, aveva ritenuto che l'inesistenza della sentenza per difetto di sottoscrizione non chiuda la causa e non privi il giudice del potere-dovere di decidere sulla domanda).

Anche la Corte di cassazione nega la possibilità di procedere alla correzione dell'errore, optando per la rinnovazione della deliberazione (cfr. Cass., 6 maggio 2009, n. 12167; idem, 29 novembre 2005, n. 26040).

L'errore materiale può configurarsi nelle ipotesi in cui la sentenza è stata sottoscritta per errore da un giudice estraneo al collegio giudicante, in luogo di altro magistrato che ne faceva parte, sempre che risulti certa l'adozione della decisione da parte dei giudici che componevano il collegio, e si sia trattato un involontario scambio di firme; solo in tale circostanza la mancata sottoscrizione del componente e la sottoscrizione del giudice estraneo al collegio sono eventi che non incidono sulla giuridica esistenza e validità del provvedimento, affetto da mero errore materiale (cfr. Cass., 29 aprile 1993, n. 5077).

Il procedimento di correzione: il giudice competente

L'istanza introduce un incidente all'interno dello stesso processo che ha dato luogo al provvedimento oggetto della richiesta di correzione, volto a individuare – mediante una corretta espressione grafica e la eliminazione di errori di formulazione - l'effettiva volontà del giudice contenuta nella decisione.

La domanda di correzione è subordinata all'esistenza di una obiettiva incertezza sul contenuto essenziale della pronuncia, che possa determinare un apprezzabile pregiudizio ad una o tutte le parti del giudizio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 1998, n. 1092, in Foro amm.-Cons. Stato, 1998, I, 1122).

Il codice di procedure civile all'art. 288 individua il contenuto della pronuncia in relazione alla circostanza che le parti concordino o dissentano sulla richiesta di correzione, pertanto il giudice dispone la correzione con decreto se vi è consenso ovvero con ordinanza collegiale in caso contrario.

L'accordo delle parti, ai fini della pronuncia che definisce il procedimento di correzione comporta, a pena di inammissibilità, la necessità di notificare la domanda alle controparti e legittima alla richiesta solo coloro che erano parti del giudizio alla data della decisione e che ne sono i destinatari.

La pronuncia sulla domanda di correzione richiede un accertamento di fatto ed è sufficientemente motivata con la specificazione dell'omissione o dell'erronea indicazione; la natura amministrativa del procedimento, comporta che l'istanza può essere riproposta.

In ogni caso rimane la possibilità di definire il procedimento con sentenza.

Nell'ambito del processo amministrativo, sono oggetto di correzione sia i provvedimenti giurisdizionali collegiali che quelli monocratici (decreti e ordinanze presidenziali). A tal riguardo l'art. 86, comma 1, c.p.a. attribuisce il potere di correzione al giudice che ha emesso il provvedimento, che provvede sulla domanda con decreto, se vi è accordo tra le parti o, in mancanza, con ordinanza collegiale; la correzione è effettuata in calce o a margine dell'originale del provvedimento, con indicazione del decreto o dell'ordinanza che l'ha disposta, così come dispone l'art. 288 c.p.c.

Pertanto, se viene chiesta la correzione di un provvedimento monocratico, la domanda va rivolta al giudice monocratico che lo ha emesso, il quale può pronunciarsi sulla stessa solo se vi è il consenso di tutte le parti sulla correzione richiesta. Infatti, in caso di dissenso delle parti, sulla domanda di correzione pronuncia sempre il collegio, anche se oggetto di correzione è un provvedimento monocratico (art 86, comma 2, c.p.a.).

Sempre nel processo amministrativo, il procedimento attiene al rito camerale, per cui i termini processuali diversi da quelli previsti per la notificazione degli atti introduttivi, sono dimezzati per cui il ricorso notificato va depositato entro quindici giorni dal perfezionamento della notificazione per il destinatario, e le controparti possono costituirsi entro trenta giorni dal perfezionamento della notificazione nei loro confronti.

La camera di consiglio va fissata d'ufficio alla prima udienza utile successiva al trentesimo giorno decorrente dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate. Nella camera di consiglio sono sentiti i difensori che ne fanno richiesta. Se poi la camera di consiglio non viene fissata alla prima data utile, la segreteria deve dare avviso alle parti costituite della data dell'udienza camerale.

In considerazione della natura non decisoria (ma sostanzialmente amministrativa) del provvedimento che dispone la correzione, si esclude la sua impugnabilità in appello (cfr. Cons. Stato, sez. V, 9 marzo 2010, n. 1365), o in cassazione, mentre risulta soggetta agli ordinari mezzi di gravame la sentenza (o il diverso provvedimento giurisdizionale) errata o corretta.

Infatti, si ritiene estensibile al processo amministrativo la previsione dell'art. 288, ult. comma, c.p.c., secondo cui nel caso di procedimento contenzioso, le sentenze possono essere impugnate, relativamente alle parti corrette, nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l'ordinanza di correzione, avvalendosi dei rimedi ordinari dell'appello, della revocazione, dell'opposizione di terzo.

Il rapporto tra procedimento di correzione e le impugnazioni

Come si è accennato nei precedenti paragrafi la correzione dell'errore materiale può anche essere chiesta in sede di appello avverso una decisione giurisdizionale. Infatti secondo giurisprudenza consolidata, l'appello può essere svolto anche per correggere errori materiali ed il giudice di appello, ove tempestivamente e ritualmente adito, può provvedere all'incombente anche d'ufficio.

Al riguardo merita di essere segnalata una recente decisione del Consiglio di Stato (cfr. sez. IV, 31 dicembre 2020, n. 8561), che precisa i termini e i limiti della ammissibilità di tale procedura. Nella richiamata sentenza il giudice di appello amministrativo - in una vicenda in cui il procedimento di correzione innanzi al giudice di primo grado è stato radicato in data abbondantemente successiva al decorso del termine per impugnare la sentenza del medesimo tribunale - ha osservato che difettano disposizioni processuali tese a consentire l'impugnazione diretta del provvedimento con cui vengono corretti errori materiali.

In particolare, l'art. 288, ultimo comma, c.p.c. (applicabile al processo amministrativo ai sensi dell'art. 39 c.p.a.), secondo cui “le sentenze possono essere impugnate relativamente alle parti corrette nel termine ordinario”, limita la facoltà di impugnazione alle sole parti corrette in sé e per sé - ossia atomisticamente - considerate ed osta, viceversa, alla proposizione di un'impugnazione con cui, sulla scorta dell'intervenuta correzione, si aggredisca l'originaria portata decisoria della sentenza.

Da quanto sopra consegue che la correzione di una sentenza non determina la rimessione in termini della facoltà di impugnare con riferimento ad assunti errori di giudizio della sentenza, già agevolmente rilevabili ab initio dalla piana lettura della stessa. Infatti, il provvedimento di correzione di errore materiale ha mera natura ordinatoria e non realizza una statuizione sostitutiva di quella corretta: esso, in particolare, “non ha, rispetto a quest'ultima, alcuna autonoma rilevanza, ripetendo, invece, da essa medesima la sua validità, così da non esprimere un suo proprio contenuto precettivo circa il regolamento degli interessi in contestazione” (cfr. Cass., sez. I, 12 gennaio 2017, n. 608, in Dir. fallim. 2017, 1495, con nota di PANNELLA; cfr. anche Cass., sez. lav., 24 dicembre 2015, n. 25978, in Foro it., Rep. 2015, Sentenza, ordinanza e decreto in materia civile, n. 78, secondo cui “il procedimento di correzione della sentenza non costituisce un nuovo giudizio o una nuova fase processuale rispetto a quella in cui la sentenza è stata emessa, ed ha natura amministrativa, in quanto finalizzato solo ad eliminare i difetti di formulazione esteriore dell'atto”).

A ben vedere la previsione dell'impugnabilità della sentenza nelle parti corrette è posta a tutela della parte che non ha chiesto la correzione, alla quale, in tal modo, è consentito di reagire avverso “il surrettizio ricorso al procedimento di correzione”, che abbia condotto a modificare l'originario contenuto decisorio della sentenza (così la richiamata Cass., sez. lav., 24 dicembre 2015, n. 25978).

La parte interessata, in definitiva, non può chiedere la correzione della motivazione della sentenza e, una volta ottenuta, lamentare con l'appello non già vizi propri delle parti corrette della sentenza, bensì una discrasia fra la motivazione come corretta e l'originario dispositivo, al fine di ottenere una modificazione di quest'ultimo.

Diversamente, del resto, si perverrebbe ad un inammissibile aggiramento del termine decadenziale per l'impugnazione e ad una strumentalizzazione del procedimento di correzione di errore materiale.

Il procedimento di correzione d'ufficio: la decisione dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 3 gennaio 2023, n. 1

Sulla possibilità di attivare il procedimento di correzione d'ufficio da parte del giudice, senza una preventiva richiesta delle parti, la dottrina non è ancora giunta ad un approdo univoco.

Una tesi più risalente si è espressa in termini dubitativi (E. APICELLA, in Il processo amministrativo, a cura di QUARANTA-LOPILATO, Milano, 2011, 644 ss.).

Essa, infatti, critica l'orientamento della giurisprudenza amministrativa che ravvisa ampie possibilità di correggere d'ufficio l'errore materiale del dispositivo previamente pubblicato, in sede di redazione della motivazione (Cons. Stato, sez. V, 28 giugno 2004, n. 4798, in Foro amm.-Cons Stato, 2004, 1776; Cons. Stato, sez. V, 22 aprile 2002 n. 2197, ivi, 2002, 937) e persino nel dispositivo della sentenza successivamente depositata, previa fissazione di nuova camera di consiglio, anche ad opera di un diverso collegio, svalutando in tal modo la portata precettiva della previsione che impone l'anticipata pubblicazione del dispositivo, finalizzata esclusivamente all'accelerazione del giudizio, talché l'omissione o il ritardo del deposito non incidono sulla validità della sentenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 31 gennaio 2005 n. 224, in Foro amm.- Cons. Stato, 2005, 95).

Un altro orientamento invece (DE NICTOLIS, Codice del processo amministrativo, Milano, 2017, 1417 ss.), soprattutto con riferimento al processo amministrativo, ritiene esperibili tale procedura anche d'ufficio, facendo riferimento ad un orientamento del Consiglio di Stato, che - anche prima della emanazione del c.p.a. e pur a fronte di un indirizzo della giurisprudenza civile orientato in senso prevalentemente contrario - aveva ammesso che la procedura di correzione materiale potesse essere attivata d'ufficio (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22 aprile 2002, n. 2197), sul presupposto della eccezionalità della ipotesi fondata su esigenze di economia processuale e sul principio di non contraddizione.

La recente decisione dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato, decreto 3 gennaio 2023, n. 1, a conferma di tale indirizzo, ha affermato che la procedura di correzione di un errore materiale può essere attivata anche d'ufficio, senza istanza di parte, trattandosi di un procedimento privo di connotati giurisdizionali e di natura sostanzialmente amministrativa.

Con tale decisione, in particolare, è stata disposta la correzione di errore materiale, dovuto a ragioni di natura informatica, del dispositivo della sentenza dell'Adunanza plenaria n. 15/2022 nella parte riguardante la composizione del collegio giudicante, al fine di renderla conforme a quella risultante dal relativo ruolo d'udienza.

Nel caso di specie sono stati richiamati i decreti collegiali del Cons. Stato, sez. VI, 7 febbraio 2017, n. 533; sez. IV, 22 aprile 2004, n. 2358 (in Foro it., Rep. 2004, Giustizia amministrativa, n.° 1198 e in Foro amm.-Cons. Stato 2004, 1083) nonché l'art. 391-bis, comma 1, c.p.c., applicabile anche nei giudizi innanzi al Consiglio di Stato (cfr. sez. VI, decreto 7 febbraio 2017, n. 533, cit.).

Le spese del procedimento di correzione

Nel procedimento di correzione, in caso di accoglimento, non è ammessa alcuna pronuncia sulle spese processuali, in quanto l'errore è attribuibile in via immediata al giudice o ai suoi ausiliari.

Tale conclusione è confermata dalla mancanza, anche nel c.p.a., di norme espresse che impongano di regolare il carico delle spese.

Tuttavia mentre la regolazione delle spese è esclusa nel procedimento non contenzioso, invece nel caso di procedimento contenzioso, essa costituisce atto dovuto con eventuale condanna della parte soccombente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 9 gennaio 1993, n. 581).

In conclusione

Il procedimento di correzione dell'errore materiale, che si svolge dinanzi al giudice che ha emesso la pronuncia da emendare, non costituisce un nuovo giudizio o una fase processuale nuova rispetto a quella in cui la sentenza è stata emessa, ma un mero incidente dello stesso giudizio diretto ad identificare, con la sua corretta espressione grafica, la effettiva volontà del giudice come già risulta espressa nella sentenza.

La natura snella del procedimento non necessita di una motivazione ulteriore rispetto alla mera indicazione dei passaggi logici e delle operazioni mediante le quali si pone rimedio all'errore del giudice.

Proprio per tale sua natura l'istituto, nel corso del tempo, ha avuto una notevole espansione, sia per l'incremento del numero delle decisioni pubblicate - al quale consegue un proporzionale aumento degli errori di redazione - sia per l'uso degli strumenti informatici (legato al processo telematico), che può dare luogo ad errori non direttamente rilevabili, né riconducibile all'attività del magistrato.

Alle predette considerazioni va aggiunto il più recente orientamento della giurisprudenza e della dottrina, favorevole ad una attivazione del procedimento anche d'ufficio a prescindere da una richiesta espressa delle parti, testimoniato dalla citata recente decisione dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Guida all'approfondimento

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N. SAITTA, Sistema di giustizia amministrativa, II ed., Milano 2009.

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S. SATTA, Diritto processuale civile, IX ed. rivista a cura di C. Punzi, Padova 1981, pag. 379.

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R. VACCARELLA, M. GIORGETTI, Codice di procedura civile annotato con la giurisprudenza, Torino Utet, 2007, annotazioni sull'art. 287 c.p.c.

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