Astensione e ricusazione

Roberto Chieppa
21 Settembre 2022

Il Capo V del Libro I del Codice del processo amministrativo contiene la disciplina dell'astensione e della ricusazione, che ricalca quella del codice di procedura civile al quale si fa rinvio. L'art. 17 del Codice del processo amministrativo prevede che “Al giudice amministrativo si applicano le cause e le modalità di astensione previste dal codice di procedura civile” e che “L'astensione non ha effetto sugli atti anteriori”. Il successivo art. 18, nel richiamare anche per la ricusazione le cause previste dal c.p.c., disciplina le modalità di proposizione della domanda di ricusazione.
Inquadramento

Contenuto in fase di aggiornamento autorale di prossima pubblicazione

Il Capo V del Libro I contiene la disciplina dell'astensione e della ricusazione, che ricalca quella del codice di procedura civile al quale si fa rinvio.

In particolare, il Codice del processo amministrativo non contiene una autonoma disciplina della astensione del giudice e l'art. 17 si limita a rinviare al codice di procedura civile, limitandosi ad aggiungere che l'astensione non ha effetto sugli atti anteriori compiuti dal giudice.

Come per l'astensione, anche per la ricusazione il Codice rinvia al codice di procedura civile; tuttavia, a differenza dell'astensione per la quale il rinvio è effettuato alle cause e alle modalità di astensione, l' art. 18 rinvia al c.p.c. per le sole cause di ricusazione (comma 1), contenendo ai commi successivi la disciplina delle modalità di proposizione della ricusazione.

L'istanza di ricusazione resta proponibile anche dalla parte personalmente (almeno tre giorni prima dell'udienza designata, con domanda diretta al presidente, quando sono noti i magistrati che devono prendere parte all'udienza; in caso contrario, può proporsi oralmente all'udienza medesima prima della discussione).

L'istanza di ricusazione non sospende automaticamente il giudizio, in quanto il collegio investito della controversia può disporre la prosecuzione del giudizio, se ad un sommario esame ritiene l'istanza inammissibile o manifestamente infondata

Come l'astensione, la ricusazione non ha effetto sugli atti anteriori, ma sono nulli gli atti compiuti (con la partecipazione del giudice ricusato) dopo la presentazione dell'istanza, se poi l'istanza viene accolta.

La decisione sull'istanza di ricusazione spetta ad un collegio in cui i magistrati ricusati sono sostituiti.

In caso di inammissibilità o reiezione dell'istanza la pena pecuniaria, in passato di soli 15 euro, è stata aumentata fino ad un massimo di 500 euro.

Le ipotesi di astensione

L'art. 17 si compone di un unico comma che sostanzialmente si limita a dichiarare applicabili al giudice amministrativo «le cause e le modalità di astensione previste dal codice di procedura civile», precisando che l'astensione «non ha effetto sugli atti compiuti anteriormente».

La Corte costituzionale ha evidenziato come le norme sulla incompatibilità del giudice, sottese agli istituti dell'astensione e della ricusazione sono funzionali al principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione e ciò ne chiarisce il rilievo costituzionale (Corte cost., n. 131/1996).

In dottrina si è sottolineato che si tratta di meccanismi destinati ad operare sulla posizione del singolo giudice, inteso come persona fisica che ricopre tale ruolo, nell'esercizio della sua funzione dello ius dicere (e quindi, si riferiscono ad ipotesi di incompatibilità sul piano concreto piuttosto che su quello astratto, come, invece, altre incompatibilità, quali quelle c.d. di servizio) (Mengozzi, Astensione e ricusazione, in Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, 320).

In estrema sintesi, per l'astensione il Codice si limita ad un sintetico rinvio al c.p.c.

Si ricorda che il citato art. 51 c.p.c. prevede alcune ipotesi di astensione obbligatoria del giudice:

1) se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto;

2) se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori;

3) se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori;

4) se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico;

5) se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; se, inoltre, è amministratore o gerente di un ente, di un'associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa.

Il legislatore, nel predeterminare le ipotesi di astensione obbligatoria, ha individuato una serie di casi in cui vige una presunzione iuris et de jure di parzialità (Romboli, Astensione e ricusazione, in Enc. giur., 1988). Ciò ha lo scopo di aiutare il giudice a sottrarsi a situazioni in cui la sua indipendenza di giudizio possa risultare compromessa, imponendogli — a prescindere dalla sua volontà — di lasciare il posto ad altri (Calamandrei, Processo e Democrazia, in Opere giur., Napoli 1965, 652).

Trattandosi di una deroga al principio del giudice naturale, le fattispecie di astensione obbligatoria elencate dall' art. 51 c.p.c. sono di stretta interpretazione (Cons. Stato, Sez. VI, ord. n. 125/2009).

Lo stesso art. 51 c.p.c. prevede, al II comma, poi che in ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza, il giudice può richiedere al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi; quando l'astensione riguarda il capo dell'ufficio l'autorizzazione è chiesta al capo dell'ufficio superiore. Si tratta, in questi casi, di astensione facoltativa.

Al riguardo, si ricorda che un'ipotesi speciale dettata per i soli consiglieri di stato era contenuta nell'art. 43, comma 2, t.u. Cons. Stato, che vieta al magistrato che ha concorso al parere in una sezione consultiva di partecipare al collegio giudicante chiamato a decidere di una questione avente il medesimo oggetto di quella trattata in precedenza.

La mancata riproduzione esplicita di tale principio è da ricondurre alla analoga previsione, più ampia, di cui al n. 4 dell' art. 51 c.p.c.. Trattandosi di un principio pacifico, da sempre applicato dal Consiglio di Stato, si deve quindi ritenere che l'obbligo di astensione sussista e debba essere circoscritto al caso di medesimo affare che forma oggetto di contenzioso (non bastando che si tratti di una identica questione di diritto).

Relativamente al processo amministrativo, è stata ritenuta inconfigurabile una situazione di incompatibilità nei confronti del giudice della fase cautelare chiamato a partecipare anche alla decisione di merito della controversia. Tale conclusione trova il suo immediato precedente nella declaratoria di infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell' art. 51 c.p.c. nella parte in cui non prevede l'obbligo di astensione nella causa di merito per il giudice civile che abbia concesso una misura cautelare ante causam, in riferimento all' art. 24 Cost. Tanto è vero questo che, in via analogica, si ritiene che non si verifichi incompatibilità nel caso in cui il magistrato, pronunciatosi in sede di sospensiva quale componente di un collegio del Consiglio di Stato, sia successivamente transitato al T.A.R. e debba decidere la medesima causa nel merito. Nel nostro sistema, il giudice che conosce un diritto e/o un interesse giuridicamente protetto nella fase cautelare è incompatibile a decidere nel merito solo se il processo è penale, mentre resta compatibile a decidere nel merito se il processo è civile o amministrativo; l'indirizzo di fondo che ispira il giudice delle leggi sembra nel senso di escludere l'estensione, ai processi diversi da quello penale, di taluni principi sull'incompatibilità del giudice già elaborati con riferimento al dibattimento penale. (Cons. Stato, Sez. V, n. 1660/2008; Cons. Stato, Ad. plen., n. 4/2014).

L' art. 51, primo comma, n. 3), c.p.c. non si applica al caso in cui il magistrato abbia partecipato alla decisione su istanze cautelari proposte incidentalmente in ricorsi per revocazione e opposizione di terzo, dal momento che: a) è lo stesso ordinamento processuale a prevedere che i predetti mezzi di impugnazione si propongano avanti lo stesso giudice che abbia pronunciato la sentenza impugnata; b) la pronuncia in sede cautelare lascia irrisolto l'esito finale del giudizio, assolvendo principalmente allo scopo di conservare integra la res iudicanda e di scongiurare il prodursi di un pregiudizio grave e irreparabile in danno della parte istante, di tal che non può reputarsi che ricorra un caso di cognizione piena alla quale il predetto art. 51, primo comma, n. 3) («conosciuto») ricollega l'obbligo di astensione (Cons. giust. amm. Sicilia, 21 marzo 2011, n. 228.)

L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che:

- l' art. 51, n. 4, c.p.c. — che fa obbligo al giudice di astenersi quando abbia già conosciuto della causa in altro grado del processo, trova applicazione nel giudizio amministrativo di rinvio, posto che l'alterità del giudice è necessaria applicazione del principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, avente pieno valore costituzionale in relazione a qualunque tipo di processo;

- l' art. 51, n. 4, c.p.c. non trova applicazione in sede di giudizio di opposizione di terzo, posto che, in tale ipotesi, la possibilità per il giudice che ha pronunciato la sentenza poi impugnata con l'opposizione di terzo di partecipare alla decisione sull'opposizione medesima, non essendo configurabile la situazione di cui all' art. 51, n. 4, c.p.c., è consentita dalla norma dell'art. 405 dello stesso codice, secondo cui competente a conoscere dell'opposizione è lo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza opposta. Cons. Stato, Ad. plen., n. 2/2009.

Con la stessa sentenza l'Adunanza Plenaria aveva pure affermato che l' art. 51, n. 4, c.p.c. trova applicazione in sede di revocazione anche quando il ricorso è fondato non su errore di apprezzamento ma su errore dei sensi, ben potendo la cosiddetta forza della prevenzione svolgere un ruolo decisivo nella fase rescindente; tale orientamento che fondava un obbligo del giudice persona fisica di astenersi nei giudizi di revocazione di sentenze decise dallo stesso giudice (sempre persona fisica come componente del collegio) è stato superato da Cons. Stato, Ad. plen., 24 gennaio 2014 n. 5, che ha invece affermato che non sussiste tale obbligo di astensione. In particolare, con detta sentenza si è affermato che, ad eccezione dell'ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell'ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio.

Con riferimento alla situazione di incompatibilità, potenzialmente derivante dall'esistenza di una causa risarcitoria, intentata in sede civile da una delle parti avverso il giudice che ha reso una pronuncia interlocutoria, la giurisprudenza ha negato che la stessa possa assumere rilevanza quale motivo di astensione dello stesso. Si è infatti rilevato che, diversamente, l'azione di responsabilità civile, intrapresa da una parte in corso di causa, costituirebbe sempre e comunque il mezzo per impedire al giudice naturale di pronunciare definitivamente sulla controversia a lui assegnata (Cons. Stato, sez. IV, n. 3985/2015). Ciò vale anche per il giudice che abbia disposto, nel corso della causa, un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ovvero sollevato questione di legittimità costituzionale, verificandosi altrimenti una non prevista ed eccentrica forma di automatica sostituzione per incompatibilità del giudice naturale; simile opzione ermeneutica sarebbe poi del tutto illogica in quanto sottrarrebbe proprio al giudice, che ha manifestato il dubbio «comunitario» e/o «costituzionale», il compito di decidere la causa una volta risolta la questione demandata al giudizio della Corte ad quem (TAR Lazio (Roma), Sez. II, n. 1884/2013; in termini, Cass. civ., S.U., n. 16627/2014 che ha escluso che integri l'ipotesi di causa pendente, di cui all' art. 51, n. 3, c.p.c. l'aver instaurato un giudizio di responsabilità nei confronti del giudice ai sensi della l. n. 117/1998).

Si è anche escluso che una situazione di parzialità del giudice possa sorgere da rapporti di collaborazione scientifica esistenti con una delle parti della controversia, o dalla comunanza derivante dall'essere entrambi magistrati amministrativi (Cons. Stato, Sez. IV, n. 3346/2009; in senso conforme, Cons. Stato, sez. IV, n. 1957/2012). Non rientrano quindi nelle ipotesi di cui all' art. 51 c.p.c., che l'art. 18 richiama, i meri rapporti derivanti dall'appartenenza al medesimo ordinamento giudiziario; infatti, la condivisione del medesimo ambiente di lavoro, peraltro utilizzando ambienti contigui, non è in grado di per sé di far ritenere sussistente una ipotesi di abituale commensalità, a meno che ciò non abbia dato luogo ad una reciproca compenetrazione delle rispettive attività professionali dal punto di vista tecnico — organizzativo, in misura tale da potersi assimilare alla confidenza e alla reciproca fiducia che connotano i rapporti tra conviventi o tra commensali abituali (Tar Lazio, Sez. III, n. 10473/2013).

La valutazione di avvio di un procedimento disciplinare nei confronti di un magistrato non è di per sé manifestazione di grave inimicizia — tale da rilevare quale ipotesi di astensione obbligatoria ai sensi dell' art. 51, n. 3, c.p.c. — in quanto costituisce esercizio da parte del Presidente del Consiglio di Stato di una prerogativa attribuita dalla legge e rimessa comunque alle successive deliberazioni del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, nell'ambito di un'attività procedimentalizzata posta a tutela, proprio, dell'incolpato (T.a.r. Lazio, Sez. III, 4 dicembre 2013 n. 10473).

Non è contestabile dai privati ricorrenti la decisione del giudice di astenersi, presa ai sensi dell' art. 51 c.p.c. (applicabile al processo amministrativo dapprima per effetto del combinato disposto dell' art. 19 l. n. 1034/1971 e dell' art. 47 r.d. n. 642/1907 e ora in virtù di quanto previsto dall' art. 17 d.lgs. n. 104/2010); tale decisione, difatti, e fermi comunque i casi di astensione obbligatoria di cui ai numeri da 1 a 5 del citato art. 51 c.p.c., «si staglia discrezionale, personale e insindacabile» e, pertanto, non può neppure essere contestato l'assenso, ovvero il diniego di assenso all'astensione, emessi dal capo dell'ufficio (T.a.r.Friuli Venezia Giulia I, 4 ottobre 2010, n. 697).

Circa la deducibilità della violazione del dovere di astensione come vizio da far valere in sede di impugnazione, si è riconosciuto come ipotesi sia estranea alla «logica» dell'impugnazione e che, a fronte di tale eventualità, l'ordinamento appresta rimedi diversi, quali in via preventiva la ricusazione (art. 18 c.p.a.; art. 52 c.p.c.), ed in via successiva, la revocazione della sentenza emessa, una volta accertato con sentenza passata in giudicato il dolo del giudice (art. 395, n. 6 c.p.c.). Fatto salvo il caso dell'interesse proprio del giudice nella causa, quindi, non è possibile dedurre come motivo di impugnazione la mancata astensione del giudice, laddove non sia stata proposta istanza di ricusazione (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4636/2016; in senso conforme, vedi Cons. giust. amm. Sicilia 12 marzo 2013 n. 337, secondo cui in difetto di tempestiva ricusazione, la violazione dell'obbligo di astensione da parte del giudice non è deducibile in appello come motivo di nullità della sentenza. Analogamente, l'immotivata astensione è stata ritenuta costituire un fatto avente rilevanza interna all'organo giudicante (ossia tra il giudice e il presidente della sezione/del tribunale), non idonea a costituire un vizio di formazione del collegio giudicante, deducibile dalla parte (Cons. St. V, n. 180/2005).

Ciò non toglie che la violazione di tale dovere, a prescindere dalla sua impugnabilità o meno, rilevi come illecito disciplinare, ai sensi dell' art. 2, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 109/2006 (la norma include, tra le fattispecie rilevanti, «la consapevole inosservanza dell'obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge»).

Al riguardo si è ritenuta legittima la sanzione disciplinare della censura comminata per la violazione all' articolo 2, comma 1, lettera c), d.lgs. n. 109/2006, per violazione dei doveri di correttezza, trasparenza, terzietà e diligenza, avendo omesso di astenersi dal trattare un procedimento «malgrado sussistessero gravi motivi di convenienza», in considerazione del coinvolgimento di interessi familiari del suo congiunto, così compromettendo la qualità e la correttezza dell'esercizio del potere giurisdizionale (T.a.r. Lazio, n. 1865/2016).

Procedimento ed effetti dell'astensione

Il rinvio alle norme del c.p.c. riguarda, per il suo carattere incondizionato, anche l'art. 78 disp. att. c.p.c., il quale disciplina le modalità con cui il giudice, che riconosce l'esistenza di un motivo di astensione, provvede a comunicare la circostanza al presidente del tribunale.

Nella specie si richiede una «espressa dichiarazione» o «istanza scritta» da inoltrare «appena ricevuto il decreto di nomina».

Anche nei casi in cui la conoscenza del motivo di astensione si verifica successivamente all'inizio dell'istruzione della causa, il giudice «ne dà subito notizia al capo dell'ufficio».

L'astensione opera direttamente nei casi di astensione obbligatoria. Se si tratta di un caso di astensione facoltativa, deve presentare la relativa istanza, chiedendo l'autorizzazione al capo dell'ufficio.

Ravvisati i presupposti per l'astensione, il Presidente titolare della Sezione del Consiglio di Stato chiamato a decidere sull'istanza di misure cautelari monocratiche da parte del ricorrente può delegare con decreto presidenziale il Presidente del Consiglio di Stato a esaminare l'istanza nonché a fissare la data della camera di consiglio per l'esame della domanda in sede collegiale (Cons. Stato, n. 2332/2017).

Ai sensi dell'ultimo periodo dell'art. 18, l'astensione del giudice non ha effetto sugli atti anteriori. Tale disposizione è stata inserita nel testo dell' articolo dall'art. 1 del d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195 (c.d. correttivo al codice).

Una volta che il giudice si sia astenuto, non può, poi, tornare a far parte del collegio giudicante avendo perduto la capacità di giudicare la controversia. Qualora ciò si verifichi – poiché l'ulteriore partecipazione del giudice alla decisione non può più essere rimossa con lo strumento della ricusazione – si configura un vizio di costituzione del collegio ai sensi e per gli effetti dell' art. 158 c.p.c., con la conseguenza della nullità (Cons. Stato, Ad. plen., n. 20/1980).

Le cause di ricusazione

Le cause di ricusazione sono quelle previste dal codice di procedura civile e non si discostano quindi da quanto previsto per i giudici ordinari, per i quali l'art. 52 c.p.c. prevede la possibilità di proporre istanza di ricusazione nei casi in cui il giudice ha l'obbligo di astenersi (l'art. 52, comma 1, c.p.c. stabilisce, infatti, che «nei casi in cui è fatto obbligo al giudice di astenersi, ciascuna delle parti può proporre la ricusazione mediante ricorso contenente i motivi specifici e i mezzi di prova»).

La norma dunque, mutuando dal sistema processualcivilistico le cause di ricusazione, realizza una piena coincidenza tra i motivi di ricusazione e quelli di astensione obbligatoria.

Come visto in sede di commento all'art. 17, la proposizione di una istanza di ricusazione rappresenta un onere per la parte che voglia far valere la situazione di incompatibilità, anche in sede di impugnazione, in assenza di una decisione del singolo magistrato di astenersi.

In giurisprudenza si è affermato che non costituisce motivo di ricusazione la presentazione di un esposto all'Organo di autogoverno della Magistratura amministrativa (Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, ai sensi dell'art. 51, primo comma, n. 3), c.p.c., dal momento che la «grave inimicizia» idonea a ingenerare l'obbligo di astensione è unicamente quella relativa a rapporti estranei al processo (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4759/2007; Cons. giust. amm. Sicilia, n. 228/2011).

Non assume rilievo, ai fini della ricusazione, la prospettata (o attuata) presentazione di denuncia in sede penale, posto che, indipendentemente dalla verifica della sussistenza della stessa e del suo preciso contenuto: - per un verso, la mera presentazione di una denuncia, stante la natura oggettiva della giurisdizione penale, non crea rapporti di «causa pendente» tra il giudice e la parte, né di per sé, ipotesi di inimicizia grave, di cui all' art. 51, n. 3 c.p.c.; — per altro verso, diversamente opinando, l'istituto della ricusazione costituirebbe, per il tramite di una presentazione di denunce in successione (di volta in volta rivolte avverso il nuovo giudicante), uno strumento per evitare il giudizio, così frustrando il diritto alla tutela giurisdizionale delle altre parti presenti in giudizio, che al contrario, ex art. 24 Cost., il giudice ha il dovere di garantire (Cons. Stato, Sez. IV, n. 1957/2012).

Eventuali errores in procedendo relativi a questioni attinenti la ricusazione del giudice restano esclusi dal sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni rese dal Consiglio di Stato, di cui all' art. 362, comma 1, c.p.c., In particolare, non dà luogo a questione attinente alla giurisdizione la censura relativa ad una pretesa carenza di potestas iudicandi del giudice amministrativo, per aver disposto la prosecuzione del giudizio, a fronte di una domanda di ricusazione contro alcuni dei componenti del collegio, pur prefigurandosi l'eventuale nullità della sentenza in ipotesi di successivo accoglimento dell'istanza di ricusazione, in virtù di quanto previsto dal comma 8 dell'art. 18 citato ( Cass. civ., sez. un., n. 12607/2012).

Segue. Modalità di proposizione dell'istanza di ricusazione

Differisce, invece, la disciplina della modalità di proposizione dell'istanza e dei suoi effetti, in relazione alla quale il Codice detta una disciplina autonoma.

Innanzitutto, con riferimento ai destinatari, è necessario che l'istanza sia rivolta verso uno o più componenti dell'organo giudicante.

È radicalmente inammissibile l'istanza di ricusazione di un Organo giurisdizionale nella sua interezza, atteso che il suo accoglimento comporterebbe l'inevitabile paralisi dell'esercizio della funzione giurisdizionale in quanto non vi sarebbe mai un Collegio esente da ricusazione. (Cons. St. IV, n. 1962/2017; Cons. Stato, Sez. IV, n. 3320/2015; Cons. Stato, Sez. IV, n. 1957/2012; Cons. Stato, Sez. V, n. 1640/2012).

Quanto alle modalità, il comma 2 prevede che l'istanza debba essere proposta con domanda diretta entro un termine di «almeno tre giorni» prima dell'udienza quando sono noti i magistrati che vi prenderanno parte. In caso contrario, l'istanza può essere proposta direttamente in udienza.

È manifestamente inammissibile perché tardiva l'istanza di ricusazione del Collegio giudicante se proposta non già nel termine perentorio di cui all' art. 18 comma 2, c.p.a., ma successivamente al suo decorso (Cons. Stato, sez. IV, n. 3320/2015; nel caso di specie, da documentazione acquisita dalla segreteria si evinceva che il ruolo dell'udienza ed in particolare la composizione del Collegio giudicante chiamato a decidere il predetto ricorso era stato pubblicato in data anteriore alla udienza).

La ragione della previsione di un termine per la proposizione dell'istanza si rinviene nella necessità di evitare un utilizzo strumentale e dilatorio dell'istituto della ricusazione, che verrebbe utilizzato secundum eventum litis, con la vanificazione di complesse attività giudiziarie espletate (Cons. Stato, sez. VI, n. 1049/2009, che ritiene manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità degli art. 51 e 52 c.p.c., in relazione agli art. 3,24,101 e 104 Cost., laddove non prevedono né la nullità dei provvedimenti resi dai giudici obbligati all'astensione, né la possibilità di tardive ricusazioni, in conformità all'interpretazione restrittiva del giudice delle leggi).

Ai sensi del comma 3, la domanda deve indicare i motivi ed i mezzi di prova ed essere firmata dalla parte o dall'avvocato munito di procura speciale.

È inammissibile l'istanza di ricusazione fondata su generiche allusioni e percezioni soggettive, le quali non sono sussumibili, neppure in astratto, in alcuna delle fattispecie di astensione obbligatoria sancite dall' art. 51 c.p.c. (Cons. Stato, Sez. IV, n. 1962/2017). Analogamente, si ritiene inammissibile l'istanza non motivata con riferimento ad alcuna delle ipotesi specificate dagli artt. 51 e 52 c.p.c. richiamati dal citato art. 18, che si limita ad addurre solo fatti avvenuti nel corso dell'udienza pubblica di trattazione del ricorso e, comunque, riconducibili all'ordinario esercizio dei poteri di direzione dell'udienza da parte del Presidente del Collegio (T.A.R. Toscana, n. 829/2012).

Nel caso in cui l'istanza sia sottoscritta dal difensore, si ritiene che questo debba essere dotato di apposita procura speciale, non essendo sufficiente quella rilasciata per il ricorso.

Ai sensi del comma 4, proposta la ricusazione, il collegio investito della controversia può disporre la prosecuzione del giudizio, se ad un sommario esame ritiene l'istanza inammissibile o manifestamente infondata.

Prima dell'entrata in vigore del Codice, la presentazione di un'istanza di ricusazione del giudice amministrativo non determinava la sospensione del giudizio principale, atteso che il regolamento di procedura davanti al Consiglio di Stato, approvato con il R.d. 17 agosto 1907 n. 642, non contemplava una norma analoga al disposto dell' art. 52, comma 3, c.p.c. (Cons. Stato, sez. IV, n. 709/2001).

L'istanza di ricusazione non sospende automaticamente il processo quando il giudice «a quo» ne valuti l'inammissibilità per carenza «ictu oculi» dei requisiti formali, sicché esso può proseguire senza necessità di impulsi di parte o d'ufficio; ciò trova fondamento nel contemperamento tra il diritto delle parti all'imparzialità di giudizio nella specifica controversia, assicurato dalla circostanza che la delibazione di inammissibilità del giudice «a quo» non può comunque assumere valore ostativo alla rimessione del ricorso al giudice competente, ed il dovere di impedire al contempo l'uso distorto dell'istituto, altrimenti causato dall'automatismo dell'effetto sospensivo. (Cass., sez. VI, n. 25709/2014).

Decisione sull'istanza di ricusazione

La disciplina è stata ora adeguata ai principi del giusto processo, prevedendosi che la decisione definitiva sull'istanza di ricusazione spetti a un collegio composto senza la presenza del giudice ricusato (comma 5).

Tale principio, affermato in termini assoluti dall'art. 18, comma 5, è stato in qualche modo temperato dalla giurisprudenza che ha affermato che il principio per cui il giudice ricusato non può partecipare alla decisione sulla sua ricusazione deve trovare applicazione tutte le volte che la questione abbia un nucleo minimo di consistenza personale, ossia realmente riferito alla persona del giudice (Cons. Stato, sez. IV, n. 3985/2015) e non anche quando, ad esempio, sia il solo carattere asseritamente erroneo della giurisprudenza di una Sezione, che i ricusati hanno contribuito a formare, ad essere equiparato a grave inimicizia personale; né può valorizzarsi, per giungere a conclusioni contrarie, il tenore letterale dell'art. 18 nella parte in cui, persino in ipotesi di istanze manifestamente inammissibili o infondate, sembrerebbe imporre un'autonoma decisione da parte di un giudice diverso, poiché comunque deve trattarsi di istanze di ricusazione che: a) non esondino dai limiti di cui all' art. 51 c.p.c. e dalla ratio che tale norma sorregge; b) non generino, proprio in ragione della loro anomalia, un sovraccarico organizzativo suscettibile di tradursi nella paralisi o nella dilazione processuale, con danno per il principio di ragionevole durata del processo e per la collettività, sulla quali gravano i costi della giustizia (Cons. Stato, sez. IV, n. 6186/2012; in termini, Cons. Stato, sez. IV, n. 3985/2015). In senso analogo, si è affermato che l'art. 18 può essere applicato, nella pienezza delle norme ricavabili dalle sue disposizioni, solo in caso di ragioni di ricusazione che non appaia ictu oculi palesemente inammissibile o infondata e che, per le ragioni stesse su cui è fondata, appaia astrattamente proponibile o reiterabile nei confronti di qualunque giudice chiamato a giudicare della controversia (Cons. Stato, sez. IV, n. 5317/2012).

Non è stato previsto che la ricusazione sospende il processo, come dispone l' art. 52, comma 3, c.p.c. per il processo civile, ma che, proposta la ricusazione, il collegio investito della controversia può disporre la prosecuzione del giudizio, se ad un sommario esame ritiene l'istanza inammissibile o manifestamente infondata.

Il presupposto della mancata sospensione è, quindi, una valutazione da parte dello stesso collegio, dove è presente il giudice ricusato sulla inammissibilità o manifesta infondatezza dell'istanza. Tale momento rappresenta un filtro necessario, onde proteggere il regolare svolgimento del giudizio dal menzionato pericolo di istanze palesemente strumentali.

La delibazione preliminare dell'istanza di ricusazione, alla quale può partecipare il giudice ricusato, deve essere cauta e rigorosa. Invero, qualora non si sospenda il processo e, successivamente, il giudice sia ricusato, gli atti compiuti saranno colpiti dalla nullità ai sensi del comma 8 (De Nictolis, Codice del processo amministrativo commentato, Milano, 2012, 362). In particolare si è osservato che la stessa deve riguardare sia i presupposti formali, sia l'effettiva individuazione di fatti sussumibili nelle fattispecie di legge, oltre ai relativi mezzi di prova (Mengozzi, Astensione e ricusazione, in Morbidelli (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015,335).

Ciò non lede i principi del giusto processo, in quanto la decisione definitiva sull'istanza è adottata, «in ogni caso» entro trenta giorni dalla sua proposizione, dal collegio previa sostituzione del magistrato ricusato, che deve essere sentito.

Tale soluzione, che consente l'immediata delibazione dell'istanza da parte del Collegio cui appartiene il giudice ricusato, ovvero da parte del Collegio ricusato nella sua totalità, è aderente al principio di effettività della tutela giurisdizionale, in quanto tesa ad evitare che con una pluralità di successive istanze di ricusazione venga paralizzata l'attività giurisdizionale; è altresì conforme a quanto espresso anche dal giudice delle leggi, secondo il quale esiste un potere delibatorio del giudice della causa in ordine all'istanza di ricusazione, onde evitare che atti di ricusazione pretestuosi comportino effetti di ritardo o paralisi del giudizio (Cons. Stato, sez. IV, n. 3369/2012).

È anche precisato che i componenti del collegio chiamato a decidere sulla ricusazione non sono ricusabili per evitare un effetto «a cascata» e il già menzionato rischio di un utilizzo strumentale della ricusazione (comma 6; che riprende la previsione di cui all' art. 40, comma 3, c.p.p. secondo cui «non è ammessa la ricusazione dei giudici chiamati a decidere sulla ricusazione»).

Ai fini di dissuadere le parti dal ricorrere in maniera strumentale a tale istituto, il comma 7 prevede che la declaratoria di inammissibilità dell'istanza o la sua reiezione può comportare la condanna alle spese e al pagamento di una pena pecuniaria non superiore ad euro cinquecento.

Ai fini della sanzione di cui all'art. 18, comma 7, si è ritenuta la sostanziale equivalenza della pronuncia d'inammissibilità e di quella d'improcedibilità, in un'interpretazione estensiva della norma, se ciò discenda dalla condotta della parte: nel primo caso manca un presupposto di rito per l'esame dell'istanza, che la parte erroneamente non ha considerato; nel secondo tale presupposto è venuto meno per effetto della condotta tenuta dalla parte stessa (Cons. Stato, n. 7078/2012).

Effetti della decisione sulla ricusazione

Pur essendo confermato che la ricusazione o l'astensione non hanno effetto sugli atti anteriori, è precisato che, se dopo la presentazione dell'istanza il giudizio continua a causa della predetta valutazione dello stesso collegio, l'accoglimento dell'istanza di ricusazione rende nulli gli atti compiuti con la partecipazione del giudice ricusato, dopo la presentazione dell'istanza.

La prosecuzione del giudizio è, quindi, ammissibile, ma l'accoglimento dell'istanza travolge (rende nulli) gli atti adottati dopo la presentazione dell'istanza.

Si ritiene preferibile la soluzione che individua nel presidente della sezione e non al collegio il soggetto al quale spetta la sostituzione del magistrato ricusato a seguito dell'accoglimento dell'istanza di ricusazione (De Nictolis, cit., 366).

Impugnabilità delle decisioni

La decisione è assunta con ordinanza, ritenuto provvedimento ordinatorio e non impugnabile autonomamente, alla stregua dell' art. 53, comma 2, c.p.c. (il codice non prevede nulla sul punto).

L'eventuale tutela avverso tale provvedimento è dunque posticipata, confluendo in quella relativa alla decisione che definisce il giudizio.

L'ordinanza di rigetto dell'istanza di ricusazione non è impugnabile perché, pur avendo natura decisoria, manca del necessario carattere di definitività e non ne è precluso il riesame nel corso del processo, attraverso il controllo sulla pronuncia resa dal (o con il concorso del) iudex suspectus, in quanto l'eventuale vizio causato dalla incompatibilità del giudice ricusato si risolve in motivo di nullità dell'attività da lui svolta e, quindi, di gravame della sentenza dal medesimo emessa (Cass., sez. VI, n. 2562/2016; Cons. Stato, n. 422/2001).

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